Nascono giganteschi depositi di informazioni gestiti dai supercomputer: "là nasce un nuovo modo di fare ricerca".
L'era del "Big data" cambia tutti i saperi, dalla fisica al giornalismo.
Intrufolatosi dal camino, il lupo è stato bollito vivo, ma dalle indagini emerge che i tre porcellini non siano i bravi ragazzi che qualcuno si ostina a difendere. Un video rivela che il lupo soffrisse d’asma e c’è chi pensa che i tre abbiano inscenato una rapina inesistente. Il processo cercherà di fare luce e gli interrogativi sui social networks dilagano come un incendio: dove finisce il diritto di difendere con armi abbiette la propria casa, già virtualmente assediata da mutui insostenibili? Mentre i porcellini, ammanettati, sono trascinati in aula, scoppiano i disordini di strada. La rabbia contro le banche degenera in violenza e gli articoli su carta e su iPad si susseguono, costruendo una storia dal finale aperto.
Su Youtube questo spot pubblicitario è un evento: lo slogan con cui si chiude è «The whole picture» - la realtà intera - ed è così che il quotidiano inglese «The Guardian» si autopromuove, divertendosi a riraccontare la celebre fiaba. Immersa nel XXI secolo, eccola finire sotto i riflettori stravolta dalla molteplicità delle fonti e dalla varietà delle interpretazioni. Una sequenza cangiante - ma lo spot non lo dice - eccitata da un fenomeno noto come «Big Data» e che si può riassumere come la «neo-scienza di grandi numeri».
Su Youtube questo spot pubblicitario è un evento: lo slogan con cui si chiude è «The whole picture» - la realtà intera - ed è così che il quotidiano inglese «The Guardian» si autopromuove, divertendosi a riraccontare la celebre fiaba. Immersa nel XXI secolo, eccola finire sotto i riflettori stravolta dalla molteplicità delle fonti e dalla varietà delle interpretazioni. Una sequenza cangiante - ma lo spot non lo dice - eccitata da un fenomeno noto come «Big Data» e che si può riassumere come la «neo-scienza di grandi numeri».
Sebbene non abbia ancora colonizzato l’immaginazione collettiva, questa scienza emergente è così aggressiva da cambiare tutto e, infatti, lo tusnami sommerge perfino una roccaforte degli allergici ai numeri come il giornalismo. Proprio «The Guardian» è uno dei primi media a buttarsi nel labirinto del «data journalism»: un gruppo di reporters è stato incaricato di confezionare scoops esplorando la mole inarrestabile di dati elaborata da centri studi, corporations, governi, organismi finanziari ed entità internettinane, a cominciare dai social networks. Che si tratti di Wikileaks e la guerra segreta in Afghanistan o degli scenari sulla povertà in Occidente queste valanghe di saperi richiedono una mente versatile: stile da inviati, ragionamento da analisti. Altrimenti non c’è modo di maneggiare i codici con cui decifrare un universo di informazioni compresse in formule e schemi, fino a far sbocciare scoperte che, contaminandosi, generano ulteriori possibilità.
Lo sanno bene gli scienziati: se le esigenze retoriche possono riposare in stand-by, la sfida intellettuale si concentra sui dati, un caos da manipolare senza sosta, seguendo singole ipotesi e progetti grandiosi. «Viviamo una rivoluzione - ha sentenziato Gary King, direttore dell’Institute for quantitative social science di Harvard -. Si comincia adesso, ma la marcia della quantificazione si diffonderà attraverso l’accademia, il business e i governi. Non c’è area che non sarà toccata». Tra gli esempi, si citano la «Global biodiversity information facility», un deposito grezzo di info sulla vita terrestre, dai batteri a interi habitat, la «ProteomeCommons», che custodisce 13 milioni di files sulle proteine, lo «Sloan Digital Sky Survey» con oltre 230 milioni di oggetti stellari e galattici e l’«International nucleotide sequence database collaboration», esteso su 250 miliardi di dati genetici. Senza dimenticare l’esperimento più ambizioso mai tentato, quello al Cern di Ginevra sull’origine dell’Universo, che si prepara a macinare 15 petabytes di conoscenza ogni 12 mesi (una gestione da 150 milioni di euro).
«Big data» attinge a miniere che fino a poco tempo fa non esistevano e si organizza con il marchio di «scienza della complessità»: schizza oltre le singole parti (atomi, geni, individui, stelle) e, sfruttando i poteri dei supercomputers, si inerpica nel continente inesplorato delle proprietà emergenti, vale a dire i fenomeni che si generano dalle interazioni degli elementi-base, ma che allo stesso tempo li trascendono, con risultati non prevedibili. E’ come dire che da un Dna quasi identico si ottengono sia Obama sia Romney, ma anche un banchiere di Manhattan e un militante di «Occupy Wall Street». Oppure, a voler essere più sofisticati, significa che l’obiettivo della scienza esplode e muta di status. Ai tempi di Darwin era costruire teorie, spiegate dai fatti. Oggi, nell’epoca dei gruppi multidisciplinari, si accumulano database e si macinano simulazioni per osservare ciò che si materializza. Ma non è detto che l’epifania si manifesti e si approdi al momento della sintesi. Ciò che si intravede può essere solo una strada accanto a molte altre e quindi la rincorsa riparte subito. E’ la complessità, appunto. Così multiforme da non entrare in nessuno dei cassetti delle classificazioni tradizionali.
Da oggetto solido la conoscenza, di metamorfosi in metamorfosi, è ora una dimensione liquida, in cui spostarsi lungo rotte multiple e immergersi a varie profondità. «Il problema è che questa informazione è inutile, se non si hanno i mezzi per navigarla», spiega il fisico Ciro Cattuto, vicedirettore scientifico dell’Isi Foundation di Torino, uno dei centri che hanno fatto della complessità la propria bussola. E così ha sperimentato un metodo per tuffarsi in Twitter e strappargli segreti altrimenti inespugnabili: servirà anche per i reporters di oggi e gli storici di domani.
Lo sanno bene gli scienziati: se le esigenze retoriche possono riposare in stand-by, la sfida intellettuale si concentra sui dati, un caos da manipolare senza sosta, seguendo singole ipotesi e progetti grandiosi. «Viviamo una rivoluzione - ha sentenziato Gary King, direttore dell’Institute for quantitative social science di Harvard -. Si comincia adesso, ma la marcia della quantificazione si diffonderà attraverso l’accademia, il business e i governi. Non c’è area che non sarà toccata». Tra gli esempi, si citano la «Global biodiversity information facility», un deposito grezzo di info sulla vita terrestre, dai batteri a interi habitat, la «ProteomeCommons», che custodisce 13 milioni di files sulle proteine, lo «Sloan Digital Sky Survey» con oltre 230 milioni di oggetti stellari e galattici e l’«International nucleotide sequence database collaboration», esteso su 250 miliardi di dati genetici. Senza dimenticare l’esperimento più ambizioso mai tentato, quello al Cern di Ginevra sull’origine dell’Universo, che si prepara a macinare 15 petabytes di conoscenza ogni 12 mesi (una gestione da 150 milioni di euro).
«Big data» attinge a miniere che fino a poco tempo fa non esistevano e si organizza con il marchio di «scienza della complessità»: schizza oltre le singole parti (atomi, geni, individui, stelle) e, sfruttando i poteri dei supercomputers, si inerpica nel continente inesplorato delle proprietà emergenti, vale a dire i fenomeni che si generano dalle interazioni degli elementi-base, ma che allo stesso tempo li trascendono, con risultati non prevedibili. E’ come dire che da un Dna quasi identico si ottengono sia Obama sia Romney, ma anche un banchiere di Manhattan e un militante di «Occupy Wall Street». Oppure, a voler essere più sofisticati, significa che l’obiettivo della scienza esplode e muta di status. Ai tempi di Darwin era costruire teorie, spiegate dai fatti. Oggi, nell’epoca dei gruppi multidisciplinari, si accumulano database e si macinano simulazioni per osservare ciò che si materializza. Ma non è detto che l’epifania si manifesti e si approdi al momento della sintesi. Ciò che si intravede può essere solo una strada accanto a molte altre e quindi la rincorsa riparte subito. E’ la complessità, appunto. Così multiforme da non entrare in nessuno dei cassetti delle classificazioni tradizionali.
Da oggetto solido la conoscenza, di metamorfosi in metamorfosi, è ora una dimensione liquida, in cui spostarsi lungo rotte multiple e immergersi a varie profondità. «Il problema è che questa informazione è inutile, se non si hanno i mezzi per navigarla», spiega il fisico Ciro Cattuto, vicedirettore scientifico dell’Isi Foundation di Torino, uno dei centri che hanno fatto della complessità la propria bussola. E così ha sperimentato un metodo per tuffarsi in Twitter e strappargli segreti altrimenti inespugnabili: servirà anche per i reporters di oggi e gli storici di domani.