C’è una cosa che colpisce: con l’elezione di Hollande, l’Unione europea sembra divenire irreversibile. Ma subito ci chiediamo: resterà la Grecia dentro l’Euro? Senza saper rispondere, ci prepariamo tuttavia a sentirne il tonfo, fuori dall’Euro, come a gioirne se non avvenisse.
Ci sono poi i Paesi bassi: resteranno nell’Unione dopo le prossime elezioni o ne usciranno dall’alto di una condizione egoista e, come già fatto dalla Gran Bretagna, ostinatamente neoliberale? Ne abbiamo il forte sospetto. E però queste due possibili evenienze ci preoccupano meno di quanto facessero prima delle presidenziali francesi: l’Europa resterà. Non perché a Camp David gli 8 abbiano deciso di coniugare, come dicono elegantemente, “rigore e crescita” (egualmente si tratta di “lacrime e sangue”) ma perché con tutta probabilità, la resistenza al progetto bismarckiano dei padroni europei comincia a risuonare irresistibile. A noi sembra infatti – lo ripetiamo – che con le elezioni di Hollande la rotta già catastrofica dell’Unione si stia modificando. Ma se il riapparire di una forza socialdemocratica (in Francia come per altri versi in Germania) conferma e rafforza il cammino verso l’Europa, chiediamoci: ne varrà la pena? Molti compagni ne dubitano. Ed è di questo problema che dobbiamo ora discutere.
Ci sono poi i Paesi bassi: resteranno nell’Unione dopo le prossime elezioni o ne usciranno dall’alto di una condizione egoista e, come già fatto dalla Gran Bretagna, ostinatamente neoliberale? Ne abbiamo il forte sospetto. E però queste due possibili evenienze ci preoccupano meno di quanto facessero prima delle presidenziali francesi: l’Europa resterà. Non perché a Camp David gli 8 abbiano deciso di coniugare, come dicono elegantemente, “rigore e crescita” (egualmente si tratta di “lacrime e sangue”) ma perché con tutta probabilità, la resistenza al progetto bismarckiano dei padroni europei comincia a risuonare irresistibile. A noi sembra infatti – lo ripetiamo – che con le elezioni di Hollande la rotta già catastrofica dell’Unione si stia modificando. Ma se il riapparire di una forza socialdemocratica (in Francia come per altri versi in Germania) conferma e rafforza il cammino verso l’Europa, chiediamoci: ne varrà la pena? Molti compagni ne dubitano. Ed è di questo problema che dobbiamo ora discutere.
Un nodo è in effetti da districare. Se da un lato moltitudini importanti sembrano desiderare l’Unione e ormai considerare l’Europa il loro paese, dall’altro lato il rifiuto dell’Europa è propagato e armato, in forme populiste e demagogiche, da forze stolte e violente. La mia opinione è che il nodo deve essere reciso e che ci si debba ormai schierare, se ancora non è avvenuto, decisamente e senza riserve, sul terreno europeo – e che, ciò assunto, ormai non si debba più porre il problema se l’Europa si farà o no, quanto chiedersi: quale Europa? È infatti solo alla luce di un programma economico, politico e di una realistica proposta sociale e culturale che si potrà rispondere alla questione: Unione europea, ne vale la pena? D’altra parte, è solo sulla dimensione europea che l’austerità potrà essere superata, una soluzione della crisi potrà darsi senza il massacro dei cittadini e che, allora, forse, alla linea di Bismarck che Berlino sta imponendo (per dirlo con una metafora storica che allude al processo dell’unificazione tedesca) si potrà opporre una linea democratica, un 1848 delle “forze del comune”.
Probabilmente la vittoria di Hollande permette di attrezzarsi a questo passaggio. Meglio, riprendendo la metafora, riapre la possibilità, se non di evitare assolutamente una realizzazione bismarckiana dell’unità europea, di relativizzarla, di riaprire le opzioni sul senso economico, politico, sociale e culturale dell’Unione – opzioni che né la costruzione giuridica, amministrativa e monetaria dei bei tempi andati prima della crisi, né la gestione “Merkozy” (Merkel + Sarkozy) del direttorio europeo nella crisi permettevano. È un risultato minimo, a fronte dei problemi che assalgono le moltitudini europee – ma forse è un nuovo punto di partenza. Non abbiamo illusioni su quel che Hollande e la socialdemocrazia hanno in testa. Il loro “debole” riformismo (anche se non flaccido come quello di Blair e di Schröder) è radicale ed inguaribile. Se la crisi non avesse determinato il disastro sociale ed economico al quale assistiamo, mai si sarebbero (Hollande e la socialdemocrazia) sentiti costretti a rinunciare a quell’“estremismo del centro” che, a partire dagli anni settanta, ha sempre inclinato il loro spirito (con la sola sospensione dei due “mirabili” anni rivoluzionari di Mitterrand… ma non è una favola troppo ripetuta da poter esser vera?).
Cogliamo dunque l’occasione! È dentro questo quadro che possiamo riaprire una speranza di lotta contro la crisi – speranza “commoner” (come dicono i comunisti) o “albigese” (come fa chi trasforma un acronimo, l’ALBA, in un’iperbole eroica) – tenendo presente che solo nella dimensione dell’Unione europea essa si può realisticamente affrontare. Insistiamo su quest’ultimo punto. La lotta contro la crisi non può darsi che sul livello globale – con forze, dunque, adeguate e collocate su questo livello. Se non c’è Unione europea, non si può dare lotta contro la crisi, perché la crisi è stata costruita dal capitalismo finanziario globale per demolire l’Unione.
È noto che, dopo il 1989, il processo di globalizzazione economica, chiedendo ordine politico e giuridico, è stato investito dalla volontà imperiale Usa e subordinato all’ordine americano. Ma ciò è durato poco. Già all’inizio del ventunesimo secolo quell’unificazione politica si è rivelata illusoria: si sono piuttosto presentati sull’orizzonte globale (certo definitivamente unificato) in ordine sparso quattro o cinque protagonisti continentali della scena mondiale (con gli Usa, la Cina, il Brasile, l’India) e… l’Europa? Gli Usa stanno infatti consumando ed esaurendo la loro egemonia imperiale, il capitalismo mondiale è assai preoccupato per questa decadenza. Avviene dunque che, se nel secondo dopo guerra la potenza americana ha sollecitato il processo di unificazione europea in esclusiva funzione antisovietica, quando l’Europa, dopo il 1989, comincia a costituirsi indipendentemente, sviluppa un’economia potente ed un modello sociale relativamente autonomo (cioè non totalmente dominato – economia “sociale” di mercato – dalla logica del profi, impone la propria moneta e si presenta dunque come concorrente ed alternativa agli Usa sul mercato mondiale, allora gli americani (e il ceto finanziario globale) si schierano contro l’unità europea. Gli Usa ritengono illusoria un’Europa politicamente e militarmente unita e preferiscono di gran lunga una zona di stabilità strategica estesa fino alla Turchia ed, eventualmente, ad Israele. Così, con furia e disprezzo, banchieri, politici ed economisti anglosassoni profetizzano la fine dell’Unione e della moneta unica. Non a caso, allora, si riapre sul terreno europeo la lotta di classe, fra il ceto capitalista ricomposto al livello globale e le moltitudini europee: una lotta fredda ma decisiva, sufficiente per dare l’avvio all’attuale profondissima crisi economica e sociale (in Italia Marchionne è l’estremo simbolo di questa provocazione). Questa crisi, l’attuale, quella che sgorga dalla relativa soluzione della precedente 2008-2009, è costruita e rivolta contro l’unione politica dell’Europa. Flagellata da questa crisi, l’Europa non trova, e non può trovare, soluzioni o alternative nell’ordine neoliberale. Gli Usa la schiacciano, per non essere – perduta l’antica egemonia – essi stessi travolti da nuovi antagonismi imperiali. Ma l’Atlantico ormai è diventato troppo profondo: anche la socialdemocrazia sembra percepire la necessità di tagliare il cordone ombelicale con Washington.(...)