25.7.12

Sovvertire la macchina del debito infinito. Intervista a Maurizio Lazzarato @ Uninomade, 14 maggio 2012


Sovvertire la macchina del debito infinito

Intervista a MAURIZIO LAZZARATO – di ANTONIO ALIA, VINCENZO BOCCANFUSO e LORIS NARDA
Dopo aver pubblicato la prefazione all’edizione italiana ritorniamo su La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato con un’intervista all’autore su alcuni nodi del suo importante pamphlet.

Nel tuo saggio, riprendendo la seconda dissertazione de La Genealogia della morale di Nietzsche e L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, fornisci una ricostruzione del neoliberalismo secondo la quale attorno al debito si produce un dispositivo di potere che informa interamente l’infrastruttura biopolitica. Parafrasando Marx potremmo dire che il debito non è una cosa ma un rapporto sociale. Quale nesso intercorre tra la relazione creditore-debitore e la proprietà?
Il rapporto creditore-debitore è un rapporto organizzato attorno alla proprietà, è un rapporto tra chi ha disponibilità di denaro e chi non ce l’ha. La proprietà piuttosto che essere dei mezzi di produzione come diceva Marx, ruota attorno ai titoli di proprietà del capitale, quindi c’è un rapporto di potere che si è modificato rispetto alla tradizione marxiana, è deterrittorializzato per dirla con Deleuze e Guattari – è a un livello di astrazione superiore, ma è comunque organizzato attorno a una proprietà: tra chi ha accesso al denaro e chi non ce l’ha.
È un rapporto di potere che invece di partire dall’eguaglianza dello scambio, parte dall’ineguaglianza della relazione creditore-debitore, che è immediatamente sociale: l’economia del debito non fa distinzione tra salariati e non-salariati, tra occupato e disoccupato, tra lavoro materiale e immateriale, siamo tutti indebitati. Nello stesso tempo è una dimensione immediatamente mondiale, che agisce e comanda trasversalmente alle divisioni tra paesi ricchi e poveri, affermati o emergenti. Il credito/debito è stata l’arma fondamentale della strategia capitalistica dopo gli anni ’70, che ha spiazzato completamente il terreno della lotta di classe sul livello sociale e mondiale, col quale attualmente abbiamo ancora difficoltà a confrontarci.
Vorrei riprendere un argomento che non ho utilizzato nel libro perché viene da quel grande reazionario che è Carl Schmitt e che comprende il problema della proprietà . Il ragionamento mi è stato molto utile per pensare il potere della moneta, anche se Schmitt non parla di quest’ultima. Ogni ordinamento politico-economico è costruito e organizzato a partire da tre principi che sono tre diversi significati della parola “nomos”. Questi stessi tre principi sono alla base dell’economia del credito/debito. In primo luogo “nomos” significa “prendere/conquistare” e dunque appropriazione. Ogni nuova società (e ogni nuova sequenza del dominio capitalista, ad esempio il post-fordismo) comincia con la conquista, la rapina, con una sorta d’appropriazione/espropriazione originaria. Fino al capitalismo questa fase consisteva nell’appropriazione/espropriazione delle terra come presupposto di ogni economia e diritto ulteriore. Nel capitalismo contemporaneo questa fase è stata organizzata dalla finanza e dal credito che hanno espropriato, attraverso la moneta, la società nel suo insieme (non solo il lavoro, ma l’insieme delle relazioni sociali, dei saperi, della ricchezza, etc.). La finanza dunque come macchina di cattura predatrice. Il secondo significato di “nomos” è “spartire/dividere”. La divisione/distribuzione “fa le parti” (ma in modo radicalmente differente da Rancière). Attribuendo “il mio e il tuo” definisce la proprietà e il diritto. Nel capitalismo contemporaneo la proprietà è distribuita dalla moneta e dal credito/debito, ed è, principalmente, possesso o privazione di titoli del capitale.
Il terzo  significato di “nomos” è produrre, produzione. Ora, mi sembra  chiaro che anche nella sequenza apertasi alla fine degli anni 70, c’è una appropriazione/espropriazione, una distribuzione/divisione (proprietà) che precede logicamente, anche se non realmente, la produzione. Il concetto di produzione per non essere economicista deve includere questi tre principi. Ne L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, mi sembra, che la distribuzione delle funzioni, delle proprietà  e l’appropriazione sia organizzata dalla moneta come prerequisito della “produzione”.
La cosa interessante è che fino al capitalismo l’ordine degli eventi nel processo di costituzione di una società è quello descritto: appropriazione, divisione, produzione. L’economia classica e il liberalismo hanno voluto far credere che la “produzione”, caratterizzata dalla liberazione delle forze produttive, dai lacci e laccioli delle società dell’Ancien Régime, risolveva al suo interno il problema dell’appropriazione e della divisione. Ed è quello che i neo-liberali e i loro governi tecnici continuano ad affermare. Diventando il livello di vita sempre più alto (crescita), la “divisione diventa più facile e l’appropriazione non è solo immorale, ma anche irrazionale dal punto di vista economico e quindi insensata” (Schmitt). Schmitt cita Lenin e Marx, come autori che – in parte, dice – non hanno ceduto alle lusinghe della “produzione”. Il primo considera l’imperialismo e la colonizzazione come l’appropriazione/espropriazione necessari  per risolvere la “questione sociale”, mentre Marx considera l’accumulazione originaria e la sua feroce violenza come condizioni imprescindibili del Capitale. Per cambiare la produzione bisogna “espropriare gli espropriatori” e distribuire differentemente la “proprietà”. Ed è quello che questa crisi pone come problema e che i liberali e i socialdemocratici non vogliono vedere – o meglio vedono benissimo, ma non possono accettare! Una nuova crescita, un nuovo New Deal che non implicano una nuova appropriazione e una nuova proprietà (che esproprino gli espropriatori, siamo sempre li!)  non fanno altro che perpetuare le condizioni della crisi. La crescita è un rapporto politico prima che economico.  Crescita verde, crescita tout court, New New Deal, politiche dell’impiego, etc. non toccano assolutamente le poste in gioco politiche della crisi, cioè le caratteristiche dell’appropriazione e della divisione proprie del neo-liberalismo. Essendo queste le proposte liberali e “socialdemocratiche” di uscita dalla crisi, aspettiamoci un suo approfondimento che, in realtà, è già in corso. La crescita della Germania, per esempio, non modifica le cause della crisi, perché accresce le differenze e le ineguaglianze di classe, la precarietà dei lavoratori poveri ma anche dei salariati qualificati e concentra la ricchezza prodotta nelle mani di pochi. Ed è sempre l’economia del debito che “espropria”, “divide” e comanda la “produzione”. Fortunatamente, l’austerità che la Germania, attraverso il controllo dell’euro (forma contemporanea della moneta come capitale, della moneta come comando), vuole imporre agli europei non funziona. Sta già trasferendo l’“instabilità” dei mercati sul terreno politico, sconvolgendo il rapporto capitale/stato, capitale/sistema politico con esiti imprevedibili.

La definizione di economia del debito è anche un potenziale strumento di trasversalità delle lotte: l’indebitamento accomuna tutti (garantiti, non garantiti, lavoratori autonomi, disoccupati). Da un lato il comando capitalistico si è riorganizzato attorno alla finanza che cattura e decodifica i flussi produttivi, dall’altro si assiste a un progressivo incorporamento del capitale fisso nella forza-lavoro. Finanziarizzazione e cognitivizzazione sono l’ascissa e la coordinata del diagramma di potere contemporaneo nel quale si dispiegano le diverse figure del lavoro, le diverse forme di vita (il precario della conoscenza come l’allevatore francese, lo studente indebitato come il pastore sardo). Dentro questo paradigma postfordista il debito, l’interesse possono essere considerati la nuova forma della misura capitalistica?
Il credito/debito è diverse cose. È un dispositivo di cattura della ricchezza sociale, è un dispositivo di comando perché ridefinisce attraverso il credito l’allocazione degli investimenti e poi sì, è assolutamente una nuova forma di misura, di valutazione della misura. I meccanismi di valutazione che sono stati introdotti in tutti gli ambiti, anche nell’università, vengono dalla finanza. La finanza ha impostato questo processo dicendo che la fabbrica fordista era una situazione opaca in cui la misura era impossibile dal suo punto di vista, per cui, per poter investire per esempio in un’impresa, la finanza doveva avere tutti gli strumenti possibili di valutazione, una perfetta trasparenza che è stata data dalle norme contabili introdotte negli anni ’80 e ’90.
La misura è un altro dei principi che sempre Carl Schmitt introduce, affermando che il frutto dell’appropriazione, ciò che viene acquisito per mezzo di “conquista, scoperta, espropriazione” deve essere “misurato/pesato/diviso”. Quindi non è che non ci sia più misura, ma, come la finanza e il credito dimostrano, si tratta piuttosto di una misura “soggettiva”. Sicuramente è nuova misura ed è una misura arbitraria, che dipende solo dalle logiche di potere, e questa logica della valutazione/misura viene imposta a tutti gli aspetti della vita, introducendo la figura dell’esperto e della valutazione, nella scuola , nella polizia, nell’università, negli ospedali, finanche nel governo etc.. Bisognerebbe rovesciare questo assetto gerarchico, mettendo al centro la riappropriazione sociale e la condivisione dei saperi, rompere questa logica della misura, della valutazione, dell’esperto, mi sembra assolutamente fondamentale.

Tra le pagine più belle del libro ci sono quelle nelle quali ingaggi polemica contro «l’egualitarismo astorico» di Rancière e Badiou e la «riflessività UrModerna» di Beck (e Habermas). Il radicalismo non-marxista francese e il post-marxismo socialdemocratico tedesco, diversissimi tra loro, presentano però due analogie: espungono la lotta di classe dal dibattito della sinistra e propongono delle teorie della comunicazione che non tengono minimamente conto dei rapporti di potere. Insomma, quella che Guattari definiva la normalizzazione franco-tedesca sembra trovare anche articolazioni progressiste. Ma pure i movimenti a cavallo tra i due secoli sono forse stati affetti da un portato più che altro etico e da un certo idealismo comunicativo, è giunto il momento di tornare ad essere marxisti?
In Badiou e Rancière c’è il politico, ma non c’è il capitalismo. C’è il politico, ma precapitalista. Ci sono Platone e Aristotele, piuttosto che Marx. Non c’è la produzione , non c’è la fabbrica. La fabbrica intesa come prima attualizzazione di quel concatenamento uomini/macchine/segni che oggi ritroviamo non solo nella produzione, ma in ogni relazione sociale.  E che troviamo anche nello Stato/welfare, nelle sue amministrazioni. La cosa che mi ha sempre colpito è che in Badiou e Rancière non c’è nemmeno il concetto, nemmeno la parola “macchina”, come non c’è neanche la parola tecnica o scienza. La macchina (nel senso di macchina sociale e macchina tecnica) è sparita anche da altre teorie critiche, proprio ora che è dappertutto, proprio ora che accompagna ogni gesto, espressione, azione della nostra quotidianità. Penso che il concetto di linguaggio e di svolta linguistica tratti dalla filosofia analitica abbiano prodotto dei grossi guai, perché rinviano a un processo che mi sembra non materialista di soggettivazione. Nel capitalismo, la soggettivazione è sempre per e/o con la macchina tecnica e sociale. Il capitale è une relazione sociale, un rapporto di potere,  ma “assistito” da macchine sociali e macchine tecniche. È questa la specificità del capitalismo. Non è un semplice rapporto tra “uomini”, intersoggettivo come in Hannah Arendt (o Rancière), dove nell’azione non c’è un atomo di “materia”. Penso che bisognerebbe restare “fedeli” al “Frammento sulle macchine” con cui diverse generazioni si sono formate.  Per queste ragioni penso che la soggettivazione politica in Badiou e Rancière sia “idealista”. In Badiou la lotta di classe è pensata in astratto, la sua antologia sono le matematiche. Badiou e Rancière parlano dell’economia come se fosse l’altro della politica, invece il politico è completamente ridefinito dall’economia. Questo è il capitalismo e non altro:  “Il nostro destino è l’economia”, che è un rapporto di potere, un rapporto dove ci sono quelli che gestiscono il potere e quelli che lo subiscono e quelli che lo subiscono hanno la possibilità di ribellarsi, di rovesciare la situazione. La soggettivazione non avviene attorno alla democrazia, ma a partire da processi macchinici di sfruttamento e di dominazione che diventano democratici nelle lotta.
Beck bisogna prenderlo come uno dei modelli dell’impossibile “terza via”, della nuova socialdemocrazia. La società del rischio di Beck è completamente ridicola, mi pare, perché – per dirla in termini molto semplici – le differenze di classe attraversano anche il rischio, cosa inconcepibile per queste teorie dove la lotta di classe è espulsa come un vecchio arnese inutilizzabile. Gli unici che non rischiano sono i capitalisti. I rischi sono tutti per i vecchi e nuovi proletari. Se portassimo fino in fondo il discorso del rischio nell’economia del debito, gli investitori che hanno rischiato investendo sui debiti sovrani dovrebbero assumersene la responsabilità. Se gli Stati fanno fallimento perdono i loro soldi, punto e a capo. Invece è assolutamente il contrario: quelli che non sono responsabili pagheranno il rischio preso dal sistema economico. Il vero rischio è corso dalla popolazione. La stessa cosa vale per il rischio ecologico.
Beck pensa il politico attraverso una diffusione e una democratizzazione dei centri di decisione e di governo, la moltiplicazione delle mediazioni, delle “discussioni”. Quello che sta succedendo sotto i nostro occhi, è esattamente il contrario. Mi sembra ci sia in atto una centralizzazione della decisione e delle tecnologie di governance. Attraverso il governo tecnico, questa crisi impone una ricentralizzazione del comando, una ricentralizzazione dei dispositivi di governance statali e non statali, che mette da parte la “politica rappresentativa”, la democrazia dei cittadini, etc.. La cosa divertente è che è ben vero che il governo tecnico decide, ma la sua decisione efficace per ridurre i salari, i redditi, le spese sociali, è assolutamente inefficace per uscire dalla crisi. Stanno andando contro il muro, solo che tra loro e il muro ci siamo noi. La socialdemocrazia era stata costruita attorno a delle basi politiche precise che non paiono riproducibili oggi nei termini che propone Beck, non c’è più questa possibilità, la crisi attuale fa completamente saltare queste teorie della terza via elaborate negli anni ’80-’90.

Passando dalla teoria alla pratica, è del tutto evidente l’insufficienza dei sindacati (anche di quelli più combattivi) e l’incapacità della sinistra radicale (si pensi al ruolo dei Grünen nelle riforme del welfare tedesche) nel leggere il presente. I nuovi movimenti stanno iniziando a porre la questione del debito, ne sono un esempio la campagna contro il debito studentesco negli Stati Uniti e i timidi accenni in Italia contro Equitalia. Gli Indignados e Occupy occupando fisicamente le piazze (come fabbriche) alludono anche alla riappropriazione della metropoli (aspetto non da poco, considerando che la deregulation scarica sugli enti locali comparti sempre più consistenti del welfare). Il rompicapo dell’organizzazione, tuttavia, resta quanto mai aperto: se è certamente necessario capovolgere quel lavoro su di sé dell’uomo indebitato in termini ricompositivi costruendo ponti solidi tra soggetti differenti, non c’è il rischio di sottovalutare la condizione situata delle singolarità? 
Qui bisognerebbe partire dall’esaurimento della logica della rappresentazione (tanto politica che linguistica). Un lungo processo di crisi della rappresentazione sta volgendo al termine, tanto dal punto di vista del capitale che dal punto di vista dell’emancipazione. La crisi del debito è prima di tutto una crisi della governamentalità che ridefinisce tanti i governati  (uomo indebitato) che i governanti (governo tecnico). Getta luce anche sul concetto di governamentalità di Foucault, rompendo radicalmente con la sua genealogia. Noi assistiamo, dall’epoca della Thatcher a una privatizzazione della governamentalità che è l’altra faccia della privatizzazione della moneta. La tecnologia governamentale non è più una tecnologia delle Stato (anche se lo Stato ci gioca un ruolo centrale, ma come istituzione “privatizzata”) e l’economia non limita soltanto dall’interno la possibilità di governare, ma se l’assume in toto. Il governo tecnico è il compimento di questo processo di privatizzazione. Alla logica della rappresentanza si sostituisce la logica funzionale, operativa (diagrammatica direbbero Deleuze e Guattari) della moneta/credito, una logica cioè che non passa per la rappresentanza, né per le semiotiche significanti e rappresentative (linguaggio) e nemmeno per dei “soggetti” che decidono (à la Schmitt) . La logica della “produzione” e la logica della rappresentazione  (politica e linguistica) funzionano insieme nel capitalismo, ma a partire dalla supremazia della prima. E nella crisi la prima occupa tutto lo spazio politico.
Che cos’è un governo tecnico, un governo non rappresentativo? E’ un tentativo di trasposizione della logica del “just in time”, dall’impresa alla politica. Il governo deve assicurare che la popolazione risponda in tempo reale alle modificazioni delle variabili economiche. Lo spread sale, la borsa scende, i salari, i redditi, le spese sociali devono adattarsi in tempo reale ai segnali emessi dall’economia del debito. I neo-liberali avevano definito la soggettività dei governati tramite il concetto di “capitale umano” definizione fatta propria da Foucault. Che cos’è il “capitale umano”? È “capitale umano” colui che risponde sistematicamente alle modificazioni che saranno artificialmente introdotte nell’“ambiente”. Il capitale umano non è più l’“atomo di libertà” dell’economia classica, ma una variabile sistemica e subordinata i cui comportamenti devono adattarsi, essere compatibili, rispondere in “just in time” ai segni emessi dall’economia. Quello che il neo-liberalismo non è riuscito ad ottenere dal capitale umano (la capacità di rispondere in tempo reale alle esigenze dei “creditori”) vorrebbe estorcerlo all’uomo indebitato e in una prima fase sembra esserci riuscito, ma già si vedono i limiti e le impossibilità di questa “politica tecnica”. Al delirio dell’“autoregolazione” dei mercati, si aggiunge il delirio dell’autoregolazione della governamentalità. Una specie di governo automatico, cibernetico, direbbero Deleuze e Guattari. Non funzionerà. In mezzo a tutte questo agitarsi distruttivo e anti-produttivo del capitale, emerge una bella novità : la società contemporanea, in realtà, non è governabile dalla logica capitalistica, se non in termini autoritari (e di una nuova reazione), ed è in questa direzione che si muovono le tecniche di governo. La società eccede la misura dell’economia neo-liberale. Quella che si mostra come una forza del capitale, nasconde una grande debolezza.
Viviamo in uno stato di eccezione permanente che ormai, diventato regola, è anche inutile continuare a chiamare eccezione! Se il sovrano è colui che decide in queste condizioni, il sovrano è oggi il Capitale. Ciò implica evidentemente un cambiamento radicale del concetto di sovranità, in realtà la sua fine, (qui c’è il limite di Schmitt e di tutte le teorie che vi si rifanno, Agamben, etc.), perché il Capitale non è una “persona” (condizione schimittiana della decisione) e nemmeno un gruppo di persone, ma una “macchina” (o meglio un insieme di macchine) con le sue soggettivazioni o personificazioni, e, seconda osservazione, non ha un territorio a sé, né la possibilità di esprimere dei “valori caldi” capaci di costituire una comunità, una società, come direbbero gli ordo-liberali tedeschi. Il mercato, l’impresa e la concorrenza sono retti da principi dissolventi, piuttosto che unificanti. Distruggono sistematicamente ciò che tiene insieme una società. Il Capitale è sempre stato costretto ad utilizzare dei territori presi in prestito per colmare le sue lacune d’integrazione politica, di cui il più importante, lo Stato-Nazione, si è poi impegnato, a partire dagli anni ’70, a minare sistematicamente. Tutte le mediazioni rappresentative e istituzionali sono o saltate o fortemente indebolite. In Italia questo processo salta agli occhi : la “Padania” è la farsa del territorio e dei “valori caldi”, comunitari, che mancano al Capitale “terziario” rappresentato da Berlusconi e i neo-fascisti, l’altra faccia della farsa, che ha invece garantito un surrogato di valori statali e nazionali. Ancora una volta l’esibizione della forza del Capitale, è piuttosto segno della sua debolezza. A condizione che emerga una soggettività che lo combatta al suo stesso livello, rivelando, con la lotta, le sue debolezze.
La logica della rappresentanza è in crisi anche dal punto di vista dei movimenti. La democrazia politica e la democrazia sociale (sindacati, istituzioni sociali, etc.) fondate sulla rappresentanza sono state rifiutate da tutti i movimenti che si sono manifestati negli ultimi trent’anni. Qualcosa di nuovo sta emergendo, tra mille difficoltà e ambiguità. I movimenti stanno facendo delle sperimentazioni molto interessanti che, però, mi sembrano ancora non all’altezza dell’attacco portato dal capitale, anche se quella degli Indignados, di Occupy Wall Street e soprattutto quella di Oakland sono molto avanzate, perché, da un lato, si pongono su un livello immediatamente sociale, rompendo con le tradizioni corporative e settoriali dei sindacati e dall’altro rifuggono la “rappresentazione”.  In ogni modo l’accelerazione e l’approfondimento della crisi , costituiranno i migliori maestri per trovare nuove modalità d’organizzazione e nuove tematiche  di mobilitazione. Non penso che ci si possa soggettivare in quanto debitori, non so se sia possibile, è una categoria dell’assegnazione capitalistica, tu sei costretto a essere debitore. Tuttavia, il debito dà immediatamente un terreno sociale, una dimensione socializzata trasversale che prima non avevamo. Come direbbe Marx, il capitalismo si mostra in tutta la sua nudità, ma questo non vuol dire fare un discorso trionfalista o da filosofia della storia, anzi. Però le condizioni sono cambiate rispetto a quelle degli anni ’80 e ’90, c’è un terreno comune che va ri-singolarizzato rispetto all’eterogeneità delle diverse lotte sociali, delle diverse forme di vita, ripartendo dalle pratiche che sono quelle della riappropriazione della metropoli, delle lotte sul reddito, etc..
Le dinamiche espansive del capitalismo si sono chiuse. Negli anni ’80 potevano ancora prometterci l’arricchimento per tutti. Questa promessa di ricchezza futura il capitalismo non può più mantenerla oggi. Quello che ci promettono ora sono “lacrime e sangue” per i prossimi 10-15 anni e la feroce difesa dei loro “privilegi”. Qui , molti dei vecchi obiettivi della lotta di classe, ridiventano attuali.


PicQuadro/Coppo di Montevarco: L'inferno

Anonymous: "Wikileaks è troppo lento" Operazione Par:Anoia, pronti 40 gb di dati @ Repubblica wb, 25 luglio 2012


Anonymous: "Wikileaks è troppo lento"
Operazione Par:Anoia, pronti 40 gb di dati


Gli hacker accusano Assange di eccessivo ritardo nel rilascio di informazioni e potenziano il loro portale: documenti riservati di Fbi, Agenzia Atomica e Scientology. E migliaia di megabyte di dati e comunicazioni in arrivo



TROPPO LENTI nel pubblicare informazioni. Questo il pensiero del collettivo hacktivista Anonymous nei confronti di Wikileaks, l'iniziativa di Julian Assange che rilascia documenti riservati, negli ultimi tempi attraverso canali di informazione tradizionali, oltre che sul web. 

Il Wikileaks di Anon. Anonymous ha così deciso di dare il via all'operazione Par:Anoia, il sito già contiene archivi di email riservate prese dal grande database degli hacktivisti, ed è pronto a rilasciare altri 40 gigabyte di dati e informazioni segrete o protette, relative agli establishment globali. Tra le risorse già reperibili sul portale ci sono migliaia di email e documenti, da fogli riservati dell'Agenzia Atomica sul disastro di Fukushima a comunicazioni interne di membri di Scientology e dell'FBI. Nell'ambito hacker, l'operazione è vista con entusiasmo ma anche con qualche riserva: non è chiaro, come sempre nel caso di Anonymous, chi ci sia dietro. E in che modo possano essere utilizzati gli IP dei navigatori che arrivano su Par:Anoia alla ricerca di informazioni.
Hacker veloci. Par:Anoia è l'acronimo per Potentially Alarming Research: Anonymous Intelligence Agency ("Informazioni potenzialmente allarmanti", recuperate dall'agenzia di Anonymous), e si realizza in un portale nato per divulgare i Wikileaks di Assange ma anche informazioni e contenuti recuperati attraverso altri canali. Secondo gli hacker, molto semplicemente, Wikileaks è troppo lento. E gli accordi con i media, attraverso cui Assange si finanzia e si protegge, rappresentano un collo di bottiglia per il rilascio di notizie riservate che secondo Anonymous dovrebbero essere rese pubbliche con più solerzia. E quindi ecco Par:Anoia incalzare Wikileaks, comunicando di avere una mole di informazioni secretate pronte al rilascio, via web e "peer to peer" per i file di grandi dimensioni. 


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24.7.12

The Price of Offshore Revisited by James S. Henry @ Tax Justice Net, 20th July 2012



TABLE OF CONTENTS
The Price of Offshore Revisited
1. INTRODUCTION/ SUMMARY AND KEY FINDINGS 2. WHERE IS OFFSHORE, ANYWAY?
3. THE GLOBAL HAVEN INDUSTRY
4. OLD ESTIMATES
5. NEW ESTIMATES
6. TRADE MISPRICING
AN ASIDE
7 . IMPLICATIONS
APPENDIX I: THE PRE-­‐HISTORY OF OFFSHORE ESTIMATES APPENDIX II: EXPLAINING CAPITAL FLIGHT APPENDIX III: KEY CHARTS


1. INTRODUCTION/ SUMMARY
The definition of victory for this paper is to review and improve upon existing estimates of the size, growth and distribution of untaxed private wealth protected and serviced by the global offshore industry.
This is necessarily an exercise in night vision. The subterranean system that we are trying to measure is the economic equivalent of an astrophysical black hole.
Like those black holes, this one is virtually invisible and can be somewhat perilous to observers who venture too close. So, like astronomers, researchers on this topic have necessarily used indirect methods to do their estimates, conducting their measurements from a respectful distance. This indirect approach is painstaking, and has many inherent limitations, as well see.
Unlike in the field of astrophysics, however, the invisibility here is fundamentally man-­‐ made. Private sector secrecy and the official government policies that protect it have placed most of the data that we need directly off limits even though it is, in principle, readily available.
In many ways, the crucial policy question is what are the costs and benefits of all this secrecy?
Another key theme that emerges from this paper is that there is an urgent need for tax justice advocates and their allies in governments and in the public, especially in source countries where the wealth is coming from, to press the relevant authorities for this information.
The very existence of the global offshore industry, and the tax-­‐free status of the enormous sums invested by their wealthy clients, is predicated on secrecy: that is what this industry really supplies as it competes for, conceals, and manages private capital from all over the planet, from any and all sources, no questions asked.
We are up against one of societys most well-­‐entrenched interest groups. After all, theres no interest group more rich and powerful than the rich and powerful, who are the ultimate subjects of our research.
The first step, however, are the estimates. The way is hard, the work is tedious, the data mining is as mind-­‐numbing as any day below surface at the coal face, and the estimates are subject to maddening, irreducible uncertainties.
Nevertheless, as usual, some things may be said.

New Estimates. As discussed below, previous estimates of the size and growth of the offshore industry to date have relied on rough judgments and rules of thumb or, at best, on one or two very simple estimation methods.
We triangulated on our estimates from the vantage point of several different methods. The aim is not pseudo-­‐precision, much less really big numbers, but to identify a plausible base case for this otherwise-­‐well hidden sector of the global economy.
A More Open Process. Another objective is to keep a sharp eye out for the puzzles surfaced by this data analysis, of which there are many. A key problem with previous estimates is sensationalism. That is to be expected, given the subject matter, and the fact that estimation is still dominated by relatively closed communities of consulting firms, government agencies, or NGOs.
An important aim of this project is to establish a more open, transparent, collaborative model for doing such research so that the data sources, estimation methods, and core assumptions are all exposed to the sunlight of peer review, and ultimately to public scrutiny.
Estimation Methods. As discussed below in more detail, this paper employs four key estimation approaches: (1) a sources-­‐and-­‐uses model for country-­‐by-­‐country unrecorded capital flows; (2) an accumulated offshore wealth model; (3) an offshore investor portfolio model; and (4) direct estimates of offshore assets at the worlds top 50 global private banks.
To compile its estimates, the paper uses latest available data from the World Bank and IMF, the UN, central banks, and national accounts to explicitly model capital flows for each member of a subgroup of 139 key source countries that publish such data.
The paper goes further, supplementing these models with other evidence, including (1) data on so-­‐called transfer mispricing, (2) data on the cross-­‐border demand for liquid mattress money like reserve currency and gold, part of which may move through offshore markets; and (3) a review of market research by leading consulting firms on the size of the offshore private banking market. (See Section 5, below, for more details.)
We believe that the resulting estimates of unrecorded capital flows and accumulated offshore wealth are the most rigorous and comprehensive ever produced.1 In the spirit of open research, we hereby issue an open challenge to the IMF and the World Bank to all comers, in fact to see if they can come up with better estimates.




Overall Size
A significant fraction of global private financial wealth -­‐-­‐ by our estimates, at least $21 to $32 trillion as of 2010 -­‐-­‐ has been invested virtually tax-­‐free through the worlds still-­‐ expanding black hole of more than 80 offshore secrecy jurisdictions. We believe this range to be conservative, for reasons discussed below.
Remember: this is just financial wealth. A big share of the real estate, yachts, racehorses, gold bricks -­‐-­‐ and many other things that count as non-­‐financial wealth -­‐-­‐ are also owned via offshore structures where it is impossible to identify the owners. These are outside the scope of this report.
On this scale, this offshore economy is large enough to have a major impact on estimates of inequality of wealth and income; on estimates of national income and debt ratios; and most importantly to have very significant negative impacts on the domestic tax bases of key source countries (that is, countries that have seen net unrecorded private capital outflows over time2.)
2. Our 139-­‐country focus group: who are the real debtors?
We have focused on a subgroup of 139 mainly low-­‐middle income source countries3 for which the World Bank and IMF have sufficient external debt data.
Our estimates for this group underscore how misleading it is to regard countries as debtors only by looking at one side of their balance sheets.
Since the 1970s, with eager (and often aggressive and illegal) assistance from the international private banking industry, it appears that private elites in this sub-­‐group of 139 countries had accumulated $7.3 to $9.3 trillion of unrecorded offshore wealth in 2010, conservatively estimated, even while many of their public sectors were borrowing themselves into bankruptcy, enduring agonizing structural adjustment and low growth, and holding fire sales of public assets.
These same source countries had aggregate gross external debt of $4.08 trillion in 2010. However, once we subtract these countries foreign reserves, most of which are invested in First World securities, their aggregate net external debts were minus $2.8 trillion in 2010. (This dramatic picture has been increasing steadily since 1998, the year when the external debts minus foreign reserves was at its peak for these 139 countries, at +$1.43 trillion.4)
So in total, by way of the offshore system, these supposedly indebted source countries including all key developing countries are not debtors at all: they are net lenders, to the tune of $10.1 to $13.1 trillion at end-­‐2010.
The problem here is that the assets of these countries are held by a small number of wealthy individuals while the debts are shouldered by the ordinary people of these countries through their governments.
As a U.S. Federal Reserve official observed back in the 1980s: The real problem is not that these countries don't have any assets. The problem is, they're all in Miami (and, he might have added, New York, London, Geneva, Zurich, Luxembourg, Singapore, and Hong Kong)
These private unrecorded offshore assets and the public debts are intimately linked, historically speaking: the dramatic increase in unrecorded capital outflows (and the private demand for First World currency and other assets) in the 1970s and 1980s was positively correlated with a surge in First World loans to developing countries: much of this borrowing left these countries under the table within months, and even weeks, of being disbursed.5
Today, local elites continue to vote with their financial feet while their public sectors borrow heavily abroad but it is First World countries that are doing most of the borrowing. It is these frequently heavily indebted source countries and their elites that have become their financiers.
In terms of tackling poverty, it is hard to imagine a more pressing global issue to address. (more...)
Copyright by James S. Henry



James S. Henry is a leading economist, attorney and investigative journalist who has written extensively about global issues.
Mr. Henry served as Chief Economist, McKinsey & Co (NY) and VP Strategy, IBM/Lotus (Cambridge). As founder of The Sag Harbor Group, his clients have included such leading organizations as ABB, Allen & Co., Ashoka, AT&T/Bell Labs, ATKearney, Calvert Fund, Cemex, ChinaTrust, Scotland Yard/FBI Task Force on Caribbean Havens, IBM/Lotus, Intel, Oxfam GB, South Africa Telecom, the Rockefeller Foundation, the Swedish Power Board, TransAlta, and Volvo.


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Opinion: Bailed-out banks facilitate $21tn offshore cash hoard di Nick Mathiason @ The Bureau of Investigative Journalism, 23rd July 2012



Opinion: Bailed-out banks facilitate $21tn offshore cash hoard


Investigative economist James Henry exhaustively trawled through financial information held by the IMF, World Bank, Bank for International Settlements, central banks and national treasuries to come up with the most definitive report ever written on the super-rich and offshore wealth.

Henry’s Price of Offshore Revisted report, commissioned by Tax Justice Network, shows:

- between $21 trillion and $32 trillion of financial assets is owned by High Net Worth Individuals in tax havens. This does not include real estate, art or jewels.

- a conservative 3% return on that $21tn taxed at 30% would generate $189bn – a figure easily eclipsing what OECD industrialised nations spend on overseas development aid.

- the top 50 private banks collectively managed more than $12.1tn in cross-border invested assets for private clients, including their trusts. This is up from $5.4tn in 2005.

- fewer than 10 million members of the global super-rich have amassed a $21tn offshore fortune. Of these, less than 100,000 people worldwide own $9.8tn of wealth held offshore.
Accompanying the Price of Offshore Revisited is a separate paper [co-written by this author]. It reveals that data used by individual countries to assess the gap between rich and poor is inaccurate. And as a result, inequality is far more extreme than policymakers realise.
This is because economists calculating inequality fail to include the vast majority of offshore cash in their findings. So the wealthy are far better off than the studies suggest.
In Inequality: you don’t know the half of it, eight of the world’s leading economists were asked whether offshore wealth was largely excluded from inequality studies. Ranging from the World Bank’s acting chief economist to academics at the Paris School of Economics and the Brookings Institute in the US, they all confirmed this was the case.
This is because the wealthy do not disclose their true incomes. They also rarely participate in surveys. Academics do compensate for non-particpation but they admit, official data vastly underestimates the true picture.
Trickle up
Combined, the two papers published by TJN end any notion that trickle down economics – the Thatcher/Reagan doctrine that suggests tax breaks for the rich benefits all society – works.
We already know that in the US between 1980 and 2010, incomes of the top 1% doubled and the top 0.1% tripled while the bottom 90% saw their incomes fall 5%. But the TJN studies show this wealth disparity would be statistically even worse if offshore cash is included in official studies.
Perhaps most tellingly, the reports bring into sharp focus how global banks – so-called ‘pirate banks’ – have enabled the super-rich to avoid unimaginable sums of tax while at the same time enjoying taxpayers cash through government bank bailouts. A true double whammy of dark proportions.
Some of these banks have been labelled ‘too big to fail’ following the financial crisis. But after the Libor scandal, HSBC’s key role in laundering Mexican drug cash and the subprime bank disaster, there is compelling evidence to suggest they are also ‘too big to be true’.
Which brings us to an issue that is fast troubling global financial regulators: the so-called ‘London disease’. It has not gone unnoticed that many of the financial scandals in recent years have a Square Mile connection. Never mind Libor, it was the London offices of AIG, Lehman Brothers and Bernie Madoff that helped destroy them. The JP Morgan and UBS rogue traders who lost billions were both London based.
The UK is also arguably the centre of the offshore world. It is one of the biggest private bank centres and Britain’s non-domicile tax rules allow the global super-rich to legally avoid taxes on their overseas income while residing here. In addition, many of the UK’s overseas territories and crown dependencies such as Jersey, Isle of Man, the Cayman Islands and the British Virgin Islands are major offshore centres. This perhaps explains why the British government, for all its rhetoric, has failed to clamp down on the shadow financial system.
It has taken the painstaking work of TJN’s Henry to bring to light the true price of offshore. That the IMF, World Bank or OECD has not done this work is troubling especially as their lack of effective oversight contributed to the economic crisis that has caused significant hardship for hundreds of millions of people.
A good way to atone is to start deploying their thousands of economists to implement measures that will introduce transparency to the financial system instead of policies that facilitate secret offshore hoarding by a tiny elite.

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PS: 7^ Italy's Number Of Millionaire Households: 270.000 Read more on Huffington Post

23.7.12

Il tesoro nascosto nei paradisi fiscali vale quanto il Pil di Usa e Giappone DI DANILO TAINO @ Corriere della sera, 23 luglio 2012


Il tesoro nascosto nei paradisi fiscali
vale quanto il Pil di Usa e Giappone

I numeri che nelle ultime ore stanno facendo onde alte in mezzo mondo sono questi: almeno 21 mila miliardi di dollari (circa 15 mila in euro), sarebbero depositati in paradisi fiscali. Forse 32 mila. In conti protetti, a bassissimo regime di tassazione nei soliti luoghi, Svizzera, Cayman Islands, Bermuda, Irlanda, Singapore e via dicendo (guarda dove sono i paradisi fiscali). È come prendere le intere economie di un anno di Stati Uniti e Giappone e nasconderle sotto il tappeto. Oppure, nel caso della stima più alta, due volte il Prodotto lordo americano. Denaro in sonno, non usato a scopi produttivi e nemmeno tassato nel luogo in cui è stato prodotto. Una buona fetta di questo - tra i 7,3 e i 9,3 mila miliardi - di proprietà di residenti in Paesi in via di sviluppo. Questa è solo la ricchezza finanziaria nascosta: non sono calcolate opere d'arte, immobili, gioielli, yacht domiciliati negli stessi paradisi.

Le cifre colossali risultano da uno studio realizzato per il gruppo di attivisti Tax Justice Network da James Henry, esperto di tassazione, ex capo economista della società di consulenza McKinsey. È stato pubblicato ieri dal settimanale britannico Observer. Per arrivare alle sue conclusioni, Henry ha incrociato una serie di fonti, compresi dati della Banca per i regolamenti internazionali e del Fondo monetario internazionale. Ne risultano stime che forniscono una narrazione interessante dei movimenti della ricchezza nell'era della globalizzazione. Stime che però vanno trattate con prudenza e che possono essere lette da diverse angolazioni.

I 21-32 mila miliardi di dollari sono quanto sarebbe finito nei paradisi tra il 1970 e il 2010. Il risultato di movimenti di capitale favoriti - come dice lo stesso Henry - «da uno stormo di facilitatori professionisti altamente pagati e industriosi nei settori del private banking, della professione legale, della contabilità e dell'investimento». Una parte di questi spostamenti sarebbe avvenuta in forma di flussi di capitale. Un'altra attraverso fatturazioni false. Dei 6.500 miliardi di dollari che per esempio sarebbero usciti illegalmente dai Paesi in via di sviluppo tra il 2000 e il 2008, 3.477 deriverebbero da fatture truccate che hanno consentito di creare offshore patrimoni non identificabili dalle autorità: il 60% dalla Cina, l'11% dal Messico, il 5% dalla Malaysia, il 3% da India e Filippine. Nello stesso periodo, invece, sarebbero usciti per vie diverse, ma sempre illegali, 427 miliardi di dollari dalla Russia, 302 dall'Arabia Saudita, 268 dagli Emirati Arabi, 242 dal Kuwait, 152 dal Venezuela.

Lo stesso fenomeno Henry lo misura nei Paesi sviluppati, naturalmente. Da una parte, individui ricchi e certe multinazionali usano vie illegali per evadere il Fisco: la ricerca individua abusi da parte di imprese nel commercio di banane, di minerali, di grano, di legno, nella finanza e nella gestione di contratti di proprietà intellettuale. Dall'altra, questo denaro mobile trova punti deboli nelle legislazioni nazionali che consentono quell'elusione ai confini delle regole che va sotto il nome di pianificazione fiscale internazionale. La gestione della ricchezza da parte di grandi banche globali è uno dei modi che Henry ha utilizzato per le sue stime (fa l'elenco delle prime 50 nella gestione del denaro, in testa Ubs, Credit Suisse, Goldman Sachs).
Per illustrare il suo metodo, Henry cita anche l'enorme domanda, apparentemente inspiegabile, che si è sviluppata nel corso degli anni per i biglietti da cento dollari e la loro bassissima velocità di circolazione; una serie di redditi mancanti nelle statistiche internazionali; le frequenti diversificazioni di portafoglio (per fare uscire denaro da un Paese) e altri indicatori. Il risultato è la stima stratosferica della «ricchezza» dei centri offshore.
Che l'evasione e l'elusione siano enormi è risaputo. La cifra di 21-32 mila miliardi di dollari ha però suscitato qualche perplessità: difficile immaginare che un forziere del genere se ne stia più o meno in sonno, in un mondo dove «il denaro non dorme mai». «Ci sono chiaramente quantità significative nascoste - ha commentato alla Bbc il direttore dell'Ufficio per la semplificazione fiscale britannico, John Whiting -. Ma, se veramente è quella la misura, cosa sta facendo tutto quel denaro?». Whiting non ha elementi per contestare le cifre ma sostiene che «l'ipotesi che un ammontare del genere sia attivamente nascosto e mai usato sembra strana».
Lo studio di Henry pone ovviamente la questione delle mancate tasse raccolte dagli Stati. Ma anche quella dell'ingiustizia sociale. L'economista calcola che il 30,3% della ricchezza finanziaria mondiale sia nelle mani di 91.186 happy few: si tratta di 16,7 mila miliardi di dollari, 9,7 dei quali se ne starebbe offshore. Una super élite di redditieri e donne e uomini d'affari occidentali seduti allo stesso desco di nababbi del petrolio, dittatori africani ed emergenti asiatici e sudamericani. Se si apre un po' il ventaglio, poco più di nove milioni di cittadini - membri d'onore di una più sobria (si fa per dire) «élite globale» che controlla oltre l'80% della ricchezza liquida del pianeta - avrebbero depositato offshore 19 mila e seicento miliardi di dollari. Paradisi, nel senso di mondi paralleli e invisibili.

Revealed: The £93m City lobby machine by Nick Mathiason, Melanie Newman, Maeve McClenaghan @ The Bureau of Investigative Journalism - 9th July, 2012



Revealed: The £93m City lobby machine


The British financial services industry spent more than £92m last year lobbying politicians and regulators in an ‘economic war of attrition’ that has secured a string of policy victories.

As the industry prepares to fight off renewed calls for root-and-branch reform in response to the Barclays rate-fixing scandal, an investigation by the Bureau has revealed the firepower of the City’s lobbying machine, prompting concern that its scale and influence puts the interests of the wider economy in the shade.

The Bureau’s four-month study also gained previously undisclosed documents that show how finance lobbyists won a host of important policy changes in Whitehall and Westminster. These include:

• The slashing of UK corporation tax and taxes on banks’ overseas branches, after a lobbying barrage by the City of London Corporation, the British Bankers’ Association (BBA) and the Association of British Insurers. The reform will save the finance industry billions.

• The neutering of a national not-for-profit pension scheme launching in October that was supposed to benefit millions of low paid and temporary workers.
• The killing of government plans for a new corporate super-watchdog to police quoted companies.
I do worry that Britain’s financial sector, particularly the banks, is too dominant and is too easily assumed to represent the national interest.’Vince Cable, business secretary
An extensive trawl of registries, consultations and hundreds of interviews has identified 129 organisations engaging in some form of lobbying for the finance sector, with over 800 people employed directly and at a cost of £92.8m. Lobbyists include in-house bank staff, public affairs consultancies, industry body representatives, law firms and management consultants.
‘Disproportionately influential’
The findings sparked a renewed attack on banks from business secretary Vince Cable.
‘The banking sector is disproportionately influential,’ he said, ‘In terms of its contribution to the economy, the financial services sector – widely defined – is comparable to manufacturing and a little bigger than the creative industries. It is important for rebalancing the economy that these sectors grow in relative importance,’ Cable said. ‘Yet I do worry that Britain’s financial sector, particularly the banks - as opposed to more successful and less problematic financial services like insurance -  are too dominant and is too easily assumed to represent the national interest. Its interests are often not the same as those of the real economy.’

Vince Cable – Flickr/Liberal Democrats
He continued: ‘If Britain is going to grow on a sustainable basis we need smaller banks and more competitive banking focused on supplying credit to British business. Yet there has been strong resistance to bank reform.
Labour’s leader, Ed Miliband, weighed in yesterday by calling on the big five banks to sell 1,000 branches in order to encourage more competition. He said the banking industry had become ‘economically damaging and socially destructive’.
The Bureau’s investigation found that the City of London Corporation – the Square Mile’s local authority – is the lobby outfit with the deepest pockets. Bureau estimates, which have been reviewed by academics, suggest that the City of London Corporation spends over £10m on public affairs advocacy and secures remarkable access to Treasury ministers.
Freedom of Information documents obtained as part of the investigation show the recently departed leader of the Corporation, Stuart Fraser had contact with the chancellor, George Osborne, and other senior Treasury ministers and officials 22 times in the 14 months up to March this year.
Secret City of London documents also show that the millions lavished on banquets in honour of politicians and state leaders are designed ‘to increase the emphasis on complementing hospitality with business meetings consistent with the City Corporation’s role in supporting the City as a financial centre’.
Beyond the Corporation are at least 26 industry bodies lobbying government and regulators based in the UK with an advocacy war-chest of  at least £34m.
People have long understood the power the finance sector has over British politics. Here, for the first time, we can now see something of its scale and firepower.’Tamasin Cave, Spinwatch
A total of 38 public affairs consultancies and public relations firms earn fees worth an estimated £15.8m from banks, insurers, hedge funds and private equity firms.
Some 124 Lords, equivalent to 16% of the House of Lords, have direct financial links with financial services firms. On Lords committees scrutinising last year’s Budget, peers who were paid by finance firms formed the majority.
Political donations by firms and individuals connected to the City contributed £6.11m in 2011 to the Conservative, Labour and Liberal Democrat parties.
Tamasin Cave, director of Spinwatch and head of the Alliance for Lobbying Transparency, said: ‘People have long understood the power the finance sector has over British politics. Here, for the first time, we can now see something of its scale and firepower. To spend such enormous sums of money to influence our government, its decisions, and the way this country is run is shocking.’
Andrew Simms of the New Economics Foundation thinktank said: ‘This looks like full-scale mobilisation for an economic war of attrition in which the finance industry is on one side, and the rest of the society, business and industry on the other.’
We do NOT “lobby” for individual firms, deals or people. We are in contact with all political parties… and act rather like a trade body but across a broader range.’City of London spokesman 
But Dame Angela Knight, the outgoing chief executive of the BBA, denied that her 200-strong bank trade body lobbied  the government.
‘We represent a range of banks in a variety of different fora. Of course where we are successful is in “operationalising” the policies made by others,’ she said.
A spokesman for the City of London Corporation disputed the figures and characterisation of its work as lobbying instead suggesting it ‘argues the case for London’. The spokesman that the City of London Corporation makes no apology for ‘promoting the competitiveness of (finance) as a whole so that this industry will thrive globally – and underpin jobs, prosperity and tax revenue’.
‘Crucially,’ the spokesman added, ‘we do NOT “lobby” for individual firms, deals or people. We are in contact with all political parties – both in and out of office and act rather like a trade body but across a broader range.’
Thierry Philipponnat, secretary general of Finance Watch, the Brussels-based advocacy group, said: ‘We all have different outlooks and the job of policymakers is to listen to all sides and find the right balance for society. The problems arise when policymakers hear only one side of the argument and special interests are allowed to dominate.’