29.2.12

Piero Calò: VIAGGIO A TOKYO - Yasujirō Ozu @ Ondacinema website, 28.02.2012



Shūkichi (Ryū Chishū) e Tomi (Higashiyama Chieko) lasciano la campagna di Onomichi per rendere visita ai figli che vivono e lavorano a Tokyo.
Lì ritrovano Kōichi, un modesto medico, e Shige, che fa la parrucchiera. Un terzo figlio, Shōji è disperso da otto anni e probabilmente morto ma è rimasto forte il legame con la nuora Noriko (Hara Setsuko). Dei due più giovani, Keizō vive a Osaka mentre la più piccola, Kyōko, vive ancora coi vecchi genitori ed è rimasta a Onomichi.
Il viaggio nella capitale si rivela ben presto deludente: i figli non hanno fatto carriera e sono anche molto cambiati, più duri, cinici e egoisti. Ben presto la vecchia coppia decide il ritorno a casa ma durante il lungo viaggio in treno Tomi ha un malore e, dopo una sosta forzata a Osaka, arriva moribonda a Onomichi. La famiglia si riunisce davanti il letto della madre agonizzante e poi ciascuno riprende la propria strada e ritorna alla propria vita.
Questo è il soggetto che in una parola si potrebbe definire “banale”.
D’altra parte aveva tutte le caratteristiche che convinse la Shōchiku a produrre quel cosiddetto “Shomingeki” (film sulla gente comune) permeato dallo “spirito di Ofuna”, un mix di quotidianità, naturalismo, intimismo, gioie e sofferenze, lacrime, sorrisi e tanto calore umano.
Insomma, uno dei tanti film di genere che la Shōchiku sfornava a tambur battente per il vivace mercato interno. Ma "Viaggio a Tokyo" spariglia il quieto mazzo della produzione seriale e porta alla ribalta un uomo che fu allo stesso tempo un grande innovatore della regia cinematografica e un vero e proprio maestro di vita.
Fu girato in un b/n a forti tinte chiaroscurali, di cui restano, pallida ombra, le bobine oggi in circolazione, tutte tirate da una copia in positivo poiché il negativo originale andò bruciato in un incendio.
La storia procede linearmente, a grandi blocchi narrativi nei quali il tempo della narrazione coincide quasi sempre con il tempo dello svolgimento, attraverso long-take giustapposti tra loro da semplici, e modernissimi già da allora, cut, stacchi secchi di montaggio raccordati in prevalenza sugli sguardi e instradati da un missaggio a doppia pista, anch’esso in cut, di dialoghi e rumori naturalistici che non si sovrappongono mai.
Ozu piazza la telecamera del fidato maestro Atsuta in posizione fissa e centrale e la poggia attraverso dei speciali stativi alla cosiddetta "altezza tatami", molto bassa insomma, quasi accolta nello spazio famigliare di quei circoli di personaggi inginocchiati e in grande intimità, e resta lì a testimoniare non tanto lo svolgimento dell’azione quanto lo scorrere del tempo.
È ormai assodato che Ozu fu l’inventore della cosiddetta "immagine-tempo", quella frattura del cinema moderno in cui il personaggio non è più soggetto di enunciazione, terminale dello stimolo-risposta comportamentista, ma, semplicemente, registra gli eventi che non sono più azione ma visione, in una situazione puramente ottica e sonora che invalida i processi più propriamente motori.
Questa fondamentale frattura, che Gilles Deleuze fissa in fase embrionale già nel neorealismo italiano (e nel suo precursore, "Ossessione" di Luchino Visconti, 1943) trova in Ozu il suo formalizzatore più incisivo poiché, come accennato, oltre una grande lezione di regia seppe apportarvi una cristallina lezione di vita.
Egli parte dalla banalità dello Shomingeki e apparentemente vi applica il principio del cinema comportamentista di stimolo-risposta, "l’immagine movimento" e l’applicazione di uno dei suoi canoni migliori, la "forme bal(l)ade" (ballata e passeggiata).
In apparenza, infatti, siamo testimoni del "vagabondare" di questa tenera coppia di anziani che si muove in circolo da Onomichi a Tokyo e ritorno, passando per le chiassose terme di Atami e per Osaka. Ma la natura di questo viaggio non sta in quello che quantitativamente vi succede ma in quello che qualitativamente si registra.
E allora registriamo suoni, di grilli in campagna contrapposti ai rumori della città; dialoghi "banali" di inspessimento e grana morale contrapposti a dialoghi "strategici", di decisione e azione; registriamo lo sferragliare del treno che declina in un battipanni che pesta, "da ciù-ciù-ciù a bat-bat-bat"; registriamo le corse dei locomotori che lasciano stazioni o le raggiungono (movimento) contrapposti ai lindi panni stesi ad asciugare (tempo); registriamo messe in quadro bilanciate e armoniche, cerchi chiusi e perfetti il cui perno è il patriarca, Shūkichi, oppure coppie perfettamente allineate sull’asse, siano esse persone, bottiglie, lampadari e che si contrappongono al disordine formale della “festa di nozze” alle terme di Atami; registriamo posizioni frontali che sono vere e proprie interpellazioni, dritte in macchina, rivolte allo spettatore con cui Ozu gioca il bastone e la carota.
Infatti, una caratteristica prorompente del cinema di Ozu e di "Viaggio a Tokyo" nello specifico è l’emergere di una enunciazione mai moralista. Ozu, attraverso il patriarca, non si esime dai giudizi di valore, negativi, sullo stato delle cose: stigmatizza l’anomia metropolitana, la sua andatura schizofrenica; riporta in luce il dolore della guerra perduta, dei lutti che ha provocato; accusa esplicitamente le nuove generazioni di non essere buoni figli coi loro padri. In tutto questo, tuttavia, non emerge né rimprovero, né vittimismo o colpevolismo ma semplice registrazione di fatti, il fluire delle cose e del tempo, entro cui ritrovare una qualche forma di armonia perduta.
Shūkichi è sì deluso dai figli, dalla loro involuzione sia sociale sia umana, ma non li accusa mai e anzi, si scopre, lui stesso non è stato un padre perfetto, dedito com’era al vizio del bere come ci fa vedere la più divertente sequenza del film nella quale si ritrovano tre vecchi amici che organizzano una rimpatriata a base di sakè e sono riaccompagnati dalla polizia in piena notte a casa della "terribile" Kōichi, la figlia di Shūkichi, che si dispera, frigna verso il genitore completamente privo di senno, lo sbatacchia, gli smanaccia il cappello e in tutto il lungo tempo della sequenza, in questa escalation di rabbia montante, il patriarca si addormenta e inizia a russare dolcemente, positivamente ubriaco.
Ai giorni nostri una sequenza siffatta sarebbe sintetizzata da vari stacchi di montaggio che avrebbero risolto in trenta secondi e cinque inquadrature il tempo di registrazione che Ozu lascia invece intatto nel long-take e che ancora ci meraviglia per la sua assoluta aderenza alla realtà, alle “cose come effettivamente sono”. Come effettivamente si svolgono.
È utile a questo punto ricordare l’omaggio che Wim Wenders dedicò a Ozu col suo documentario "Tokyo Ga" (1985).
L'autore tedesco ripercorre i luoghi di Ozu, intervista il maestro Atsuta che si fa riprendere abbracciato alla fedele Mitchell, la sua "fidanzata a tre gambe", si reca infine sulla tomba che accolse il grande regista giapponese appena sessantenne. Wenders vuole verificare sul campo una sua teoria, di tipo morale: la nuova Tokyo è ormai un “mostro infernale”, brulicante, ansiogeno, schizofrenico così come aveva preconizzato Ozu nei suoi film e in "Viaggio a Tokyo" in particolare.
A dimostrare ciò, Wenders punta la telecamera su un caseggiato popolare, immagine ricorrente nell’universo oziano, con il "50", la sua focale preferita che è una focale media che entra nel dettaglio di una porzione di spazio ridotta e schiaccia lo sfondo, annullando la profondità: questa immagine, dice Wenders, oggi non significa più nulla, ed è financo brutta.
Qui Wenders compie un doppio errore: intanto ne desume una lezione di moralismo che è incoerente con la personalità di Ozu, che mai aveva abbracciato tale piano del giudizio; fa poi un errore di “storia cinematografica” partendo dall’assunto che l’immagine-tempo di Ozu è di fattura naturalistica, documentaria e non invece frutto di una meticolosa messa in quadro. È un errore di valutazione che si compie spesso anche ai danni del Neorealismo italiano, giudicato spesso un cinema povero di mezzi e di sceneggiatura e quasi casuale, dimenticando che, per esempio, De Sica arrivava anche a picchiare gli attori per inculcargli una determinata posa o battuta.
La morale di "Viaggio a Tokyo" semplicemente non c’è: la fine del viaggio terreno di Tomi non porta conseguenze, nessuno ne esce né migliorato né peggiorato. Tutto scorre.
È evidente che l’interesse di Deleuze per Ozu ha travalicato il cinema per un campo più strettamente sociologico: come gli uomini moderni hanno sviluppato la strategia di indossare maschere, di essere lieti nella lietezza e tristi nella tristezza per tornare indistinti, pronti a indossare qualsiasi maschera al momento opportuno, insomma quella cartografia che il filosofo francese chiamava "organi senza corpo".
Eppure, se non un insegnamento resta un lieto fine, che nella problematica attribuzione al genere di “Viaggio a Tokyo” ci fa pendere dal lato della commedia più che del dramma, la registrazione di una piccola e preziosa utilità che da sola riesce a dare il senso a un’intera esistenza e ha per oggetto la più sincera, spietata con se stessa, gentile e sempre sorridente Noriko cui il patriarca regala il “fuorimoda” orologio della defunta Tomi.
Con un orologio, il tempo, e una promessa, l’azione che ne verrà e che non sveliamo, la sua vita potrà adesso prendere una direzione giusta, felice, armonica.

Biblio-filmografia consultata
Gilles Deleuze "L’immagine-tempo" (Ubulibri, 1997)
Dario Tomasi "Ozu Yasujiro: Viaggio a Tokyo" (Lindau, 1996)
Dario Tomasi "Ozu Yasujiro" (Il castoro, 1996)
Tokyo Ga (Wim Wenders, 1985)
Viaggio a Tokyo – Soshun (cofanetto doppio DVD, Minerva Video)


François J. Bonnet - Les mots et les sons Un archipel sonore - éditions de l'éclat, Fr, Avril 2012



François J. Bonnet
Les mots et les sons
Un archipel sonore




PARUTION AVRIL 2012

«Dire le ‘sonore’ a été une des gageures de l’écriture esthétique et, au XXesiècle, on aura plus largement insisté sur la structure et la forme, au détriment de la sensation, en affirmant la toute-puissance du discours. Mais il suffit de porter l’oreille à une conque marine pour que le son de la mer qu’on y entend, ébranle les édifices, mette à bas les échafaudages rhétoriques de «ce qu’entendre veut dire».Dans les Mots et les sons, François J. Bonnet explore les voix fantômes, l’inframince du son, le sampling, les musiques d’ambiance etc. dont notre univers est peuplé et qui échappent aujourd’hui à la forme traditionnelle de l’écoute. Il ouvre sur des archipels sonores inouïs, éphémères et précaires comme les TAZs (Zones autonomes temporaires), mais riches de nouvelles expériences d’écoute, propres à éduquer nos oreilles à mieux entendre l’imperceptible.

François Bonnet est né à Limoges en 1981. Il est membre depuis 2007, du Groupe de Recherches Musicales de l'Institut National de l'Audiovisuel (INA-GRM), responsable de la coordination pédagogique du Master Acousmatique et Arts Sonores en partenariat avec l'Université Paris-Est Marne)la Vallée, assistant de programmation de la saison musicale du GRM. Il enseigne d'autre part à l'Université Paris 1 Panthéon Sorbonne. Il est également compositeur et plasticien.


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Leo Spitzer - L'Harmonie du monde Histoire d'une idée - èditions de l'éclat, Fr, Avril 2012



Leo Spitzer
L'Harmonie du monde
Histoire d'une idée

PARUTION AVRIL 2012

L’histoire de l’idée d’« harmonie du monde », depuis les Pythagoriciens, est – dans l’esprit de Leo Spitzer – histoire de la permanence et continuité de la civilisation classique à travers les âges, jusqu’au seuil de notre monde moderne sécularisé. Elle fait son chemin en suivant les méandres des mille et un textes de littérature européenne convoqués ici, d’où monte, en un long crescendo ostinato, la musique de notre « idée du monde ». Concert de langues et de citations, L’harmonie du monde, dans son absence délibérée de structure et dans le foisonnement de ses références entrelacées, est « un monument à la mémoire de l’homme » (René Wellek), et « l’un des livres les plus lumineux qu’ait pu nous offrir la culture allemande » (Carlo Ossola).
Né à Vienne en 1887, Leo Spitzer fut professeur de philologie romane aux universités de Marbourg, puis de Cologne, avant d’être destitué de son enseignement par les nazis en 1933. Contraint à l’exil, comme son confrère Erich Auerbach, il devient professeur de philologie romane à l’université d’Istanbul, à l’invitation du gouvernement de Mustapha Kemal, puis émigre aux Etats-Unis en 1936, où il enseigne la littérature comparée à l’université Johns Hopkins de Baltimore jusqu’à sa mort en 1960. On peut lire en français ses désormais classiques Études de style, préfacées par Jean Starobinski (Gallimard, 1970) et, plus récemment, un recueil d’Etudes sur le style (Ophrys, 2009).


Jean Clet Martin - Deleuze - éditions de l'éclat/éclats, Fr, Fevrier 2012



Jean Clet Martin
Deleuze

La boîte à ‘concepts’ précisément ciselés par Gilles Deleuze, depuis Empirisme et subjectivité (1953) jusqu’à Critique et clinique (1993), est ouverte ici par Jean-Clet Martin, reparcourant une œuvre sans équivalent dans la philosophie du XXe siècle. Cet accéléré de 128 pages, fulgurant comme la traversée du Louvre par les héros de Bande à part, fait taire les commentaires pour véritablement penser avec Deleuze, et indique le chemin pour revenir aux livres eux-mêmes.


Jean-Clet Martin est l’auteur d’une œuvre riche et abondante, depuis son premier essai sur Deleuze en 1993, à la récente lecture de la Phénoménologie de l’esprit de Hegel (Une intrigue criminelle de la philosophie, Paris, 2009). En 2006, il a publié aux Éditions de l'éclat, Éloge de l’inconsommable, et Borges. Une biographie de l’éternité. Il anime le blog : jeancletmartin.blog.fr.



Deterritorializing Deleuze - 5th International Deleuze Studies Conference - New Orleans, 25-27 June 2012



5th International Deleuze Studies Conference
Deterritorializing Deleuze
New Orleans, 25-27 June 2012

Hosted by Tulane University Department of Philosophy with Southeastern Louisiana University Department of History and Political Science.

The fifth annual Deleuze Studies Conference will continue to explore themes related to Deleuze and Deleuze and Guattari that have been the focus of previous conferences. In particular, this conference will bring together a wide range of researchers, writers, and artists who have each drawn inspiration from Deleuze’s work. More to the point, this conference will explore the relationships between philosophy, science, and art, examining how each practice needs the deterritorializing influence of the other. A central question of this conference will be to explore the role the texts of Deleuze (and Guattari) have played in the emerging debates and discussions within and among philosophy, science, and art. A further question will be how work within the various philosophical, scientific, and artistic disciplines has in turn pushed Deleuze studies in new, promising, and unpredicted directions.

The 2012 Deleuze Studies conference will be held in New Orleans, on the campus of Tulane University. New Orleans is a unique city with a vibrant cultural life that will provide a perfect setting for a number of the evening events that will be planned in conjunction with the conference. Hosting the conference in the United States for the first time will also provide an opportunity for the ever-increasing number of people working on Deleuze in North America to present their work.
Possible topics for presentation at the conference can include, but need not be limited to:
  • Philosophy and culture
  • Architecture and urban planning
  • Deleuze and analytic philosophy
  • Neuroscience and philosophy of mind
  • Aesthetics and artistic practice
  • Globalism and the crises of capitalism
  • Minor literatures and literary criticism
  • Philosophy, ontology, and metaphysics
  • Deleuze and the history of philosophy
  • Gender and politics
  • Problems in science and mathematics
  • Historiography and philosophy

Length of presentations are to be limited to a maximum of 20 minutes. We welcome panel proposals. For early notification, submit your abstract or panel proposal (including abstracts) to the conference organizer by February 1, 2012. We will accept abstract up to March 31.

Notifications of acceptance for those who submit by February 1 will be emailed by March 1, 2012, for those who submit by March 31 they will be notified by April 15..

Conference organizers: Professor Jeffrey Bell, Southeastern Louisiana University, and Professor Richard Velkley, Tulane University. For more information, contact Professor Bell at jbell@selu.edu.

Deleuze Camp
Preceding the conference students and scholars interested in the work of Gilles Deleuze are welcome to participate in Deleuze Camp 6 which will take place on 18-22 June 2012 in New Orleans. This venue will provide an opportunity for participants to engage with experienced scholars from different fields in readings of Deleuze’s texts. The Deleuze camp will also include a student forum where participants can present their own work and ideas. Spaces are limited. For applications and more information, contact Professor Bell.


Sandro Chignola - Il tempo rovesciato. La Restaurazione e il governo della democrazia - Il Mulino, It, 2011



Sandro Chignola - Il tempo rovesciato. La Restaurazione e il governo della democrazia - Il Mulino, It, 2011


La cultura europea della Restaurazione è caratterizzata dalla necessità di rimediare alla rottura rivoluzionaria dell'Ottantanove e dell'esperienza napoleonica, e di integrarne alcuni principi all'interno dell'ordine politico. Il libro riflette sul problema della democrazia così come fu percepito dal liberalismo francese d'inizio Ottocento e sul tentativo sperimentato in Francia di governare e, anzi, di addomesticare la democrazia, intesa non come forma di governo, ma quale tendenza ineludibile all'uguaglianza e alla desovranizzazione della politica. Sulla scorta delle categorie interpretative fondate da Michel Foucault, l'autore svolge un serrato confronto con il pensiero e gli scritti di Chateaubriand, Ballanche, Guizot e Tocqueville, e ricostruisce la fisionomia nuova e moderna che da questa esperienza derivò ai dispositivi del potere.


Sandro Chignola insegna Filosofia politica nell'Università di Padova. Scrive regolarmente sul "Manifesto". E' autore fra l'altro di "Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società" (Editoriale scientifica, 2004) e "Storia dei concetti e filosofia politica" (con G. Duso; Angeli, 2008). Fa parte del comitato di direzione di "Filosofia politica".


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28.2.12

SITE 31-32.2012: Remake Remodel


Contents
  • French Philosophy Since 1945, Fredrika Spindler
  • Universal Modernism, Swedish Art Heroine,Charlotte Bydler
  • “Pastoral Power” and the Techniques for Controlling the Poor and Unemployed, Maurizio Lazzarato
  • Inventing a Silence, Alexandre Costanzo
  • The Ground Zero Mosque That Wasn’t One: Media and Architecture in America, Joel McKim
Theme: Late Style
  • Who’s Afraid of Red, Blue and Yellow?, Sam Smiles
  • Water Lilies and the Gesture of Melancholy: On Monet’s Late Works, Bente Larsen
  • Adorno and the Problem of Late Style, Sven-Olov Wallenstein
Theme: Quality Education
  • Introduction, Karl Lydén & Kim West
  • Cogito Ergo Insurgo! The Italian University: Laboratory of Crisis and Critique, Sara R. Farris
  • On the Role of the University in the Age of Management Politics, Hans Ruin
  • The Multiple University and the Heroism of Forms: Variations on an Infinite Autonomy, Stéphane Douailler
  • Adventures in the Sausage Factory: A Cursory Overview of UK University Struggles, November 2010–2011, Danny Hayward
  • Dutch Austerity and Free Academies: An Interview With Katja Diefenbach, Karl Lydén





Geographies of markets: Materials, morals and monsters in motion by Christian Berndt and Marc Boeckler @ Progress in Human Geography, February 2012; 36 (1)



Geographies of markets: Materials, morals and monsters in motion



Abstract


Approaching processes of capitalist market exchange from a cultural economic perspective, we identify three strands of research that are all part of a widespread ‘pragmatic turn’ in the study of economic activities: (1) the conceptualization of markets as heterogeneous arrangements of people, things and sociotechnical devices; (2) the insight that multiple frames of reference are mobilized in everyday market activities in addition to instrumental rationality; and (3) approaches that combine an interest in the performance of diversity and difference in concrete market contexts with an attention to mobility in network capitalism.


Christian Berndt - University of Zurich, Switzerland
Marc BoecklerUniversity of Mainz, Germany


Theology and Postmodernism: Is It All Over? by Graham Ward @ Journal of the American Academy of Religion, Volume 80 Issue 1 March 2012



Do the social and cultural changes over the opening years of the twentieth century mean that we have to say postmodernism is over? And have theologies still responding to that postmodern condition already passed their sell-by date? This article examines four of the new trends impacting postmodernism and concludes that though we have certainly moved elsewhere, postmodernity is not quite making its final gasps. This is primarily because the economic force behind postmodern culture, neo-liberalism, remains dominant. We then look at three examples of theological response to the new inflexions in postmodernity, pointing up how they have changed from earlier postmodern theologies. We end by raising the question of whether a major challenge to neo-liberal and global economics is about to announce itself with national bankruptcies and the increasing pressure on key international currencies. If that challenge materialized, then postmodernity would be over. 


Graham Ward, The University of Manchester/Published by Oxford University Press/22-02-2012 


The Journal of the American Academy of Religion is generally considered to be the top academic journal in the field of religious studies. This international quarterly journal publishes top scholarly articles that cover the full range of world religious traditions together with provocative studies of the methodologies by which these traditions are explored. Each issue also contains a large and valuable book review section.


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Sandro Chignola @ Uninomade, Commonware Sessions, Bologna, 22 Febbraio 2012



 - Stato e costituzione – Sandro Chignola (mercoledì 22 febbraio, h. 16) 
Commonware è lo spazio di UniNomade dedicato alla condivisione dei saperi e alla costruzione di percorsi di conricerca e autoformazione. É una cassetta degli attrezzi per i movimenti e dentro i movimenti, un luogo di elaborazione di nomi e categorie comuni, un laboratorio di formazione politica e di inchiesta militante. Commonware è in particolare una critica della società della conoscenza e un modulo replicabile e virale che sfida gli open courseware dell’accademia globale, cioè i pacchetti formativi dell’università-azienda che producono dequalificazione e precarietà. Il primo corso di Commonware ha come obiettivo la socializzazione ed elaborazione critica di esperienze e concetti della storia del pensiero radicale e della lotta di classe, a partire da Marx fino ad arrivare all’operaismo. Nelle otto lezioni previste ci poniamo l’obiettivo di costruire una base condivisa per riflettere sugli strumenti fondamentali volti a comprendere la genealogia del presente e, dunque, ad agire al suo interno in direzione di una trasformazione dei rapporti sociali. Questa prima sperimentazione laboratoriale si terrà dalla metà di gennaio alla fine di giugno 2012 a Bologna, per poter consentire una continuità nel percorso formativo a coloro che vi prenderanno parte. A tal scopo mettiamo a disposizione una bibliografia consigliata (http://uninomade.org/bibliografia-conricerca-composizione/), oltre a testi e materiali che verranno indicati di volta in volta nel corso. Essendo un modello riproducibile, il laboratorio proseguirà di semestre in semestre in altri luoghi, per dare concretamente corpo a un’università nomade. Tutte le lezioni verranno trasmesse in streaming e raccolte sul sito (http://uninomade.org/commonware/), così da consentire a tutti di seguirle in diretta o di scaricare l’intero modulo formativo. Per partecipare al corso o chiedere ulteriori informazioni potete scrivere all’indirizzo commonware@uninomade.org


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Lucian Freud - Portraits @ National Portrait Gallery, London, 9 February - 24 May 2012


'I've always wanted to create drama in my pictures, which is why I paint people. It's people who have brought drama to pictures from the beginning. The simplest human gestures tell stories.'
Lucian Freud
Lucian Freud (1922 – 2011) was one of the most important and influential artists of his generation. Paintings of people were central to his work and this major exhibition, spanning over seventy years, is the first to focus on his portraiture.
Produced in close collaboration with the late Lucian Freud, the exhibition concentrates on particular periods and groups of sitters which illustrate Freud's stylistic development and technical virtuosity. Insightful paintings of the artist's lovers, friends and family, referred to by the artist as the 'people in my life', will demonstrate the psychological drama and unrelenting observational intensity of his work.
Featuring 130 works from museums and private collections throughout the world, some of which have never been seen before, this is an unmissable opportunity to experience the work of one of the world's greatest artists.

Olafur Eliasson by Chris Gilbert @ BOMB 88/Summer 2004



Conceptual art’s shift away from the traditional art object—sometimes dubiously referred to as “dematerialization”—was more or less an idée reçue in the late 1980s and early ‘90s, when Olafur Eliasson was beginning to make art as a student at the Royal Academy of Arts in Copenhagen. Though it was probably a dead end as a formal aesthetic proposition, “dematerialization” provided Eliasson with an open mandate to reach beyond the confines of specifically artistic concerns as he evolved a body of work that ranges from discrete interventions to room-size installations and massive, museum-wide environments—all of it employing shifting frames of reference that are shared with science, psychology and architecture. In this growing body of “objectless” works, experience and perception, rather than a supposedly unmediated thing-in-itself, have become Eliasson’s elusive subject. The physical components of these works—fog, light, ice and earth as well as steel, plastic and glass—are as heterogenous as the structures themselves, though the work shares a central function: fostering an engagement with an environment simultaneously with reflection on that engagement. When I spoke to the artist this spring, I was keen to discuss one of the most unusual moments in his varied oeuvre, his recent installation in the Tate Modern’s cavernous Turbine Hall, titled The Weather Project. This was a giant artificial sun placed in a mirrored arid fog-filled environment that droves of people came to see and took ownership of in an aggressive, sometimes cultish manner. I also wanted to explore how the interstitial position of his work, which is both equally engaged and equally distant from science, poetry and politics, could be compared to the role that modern philosophy—the “handmaiden” or the “queen” of other disciplines, according to Immanuel Kant—has occupied in the critical tradition that stretches from that pre-Romantic philosopher through G.W.F. Hegel to the present.
Chris Gilbert You often use the phrase “seeing yourself seeing” or “sensing yourself sensing” to describe the way your work functions. It is interesting that this proposition—namely, that the experience of nature is at least partly a human construct—could be taken as a summary of Romantic philosophy’s central idea. Immanuel Kant often referred to his work as effecting a reversal of the Copernican revolution that had put the sun rather than human beings and the earth at the center of the universe. Like the Romantics who followed him, Kant returns humanity to the center with the claim that we are co-creators of the world that we appear to encounter. It seems to me that a similar dynamic, accompanied by an ethics that likewise emphasizes human responsibility, operates in your work. It is indicated with particular clarity in both the title and the function of the work Your spiral view, which puts the viewer in the center of a light-refracting tube.
Olafur Eliasson If so, I hope this happens in a non-normative way. The problem with putting the model of the person seeing at the center is that it often results in normative ideas of spatiality and personhood. I would like to have the model of the subjective and singular experience at the center, but I would also like it to function non-normatively, which I suppose is a paradox. Kantian epistemology always seems to me inescapably normative. As I use these ideas of seeing-yourself-sensing or sensing-yourself-seeing, they are about trying to introduce relationships between having an experience and simultaneously evaluating and being aware that you are having this experience. It’s not about experience versus interpretation but about the experience inside the interpretive act, about the experience itself being interpretive. You could say that I’m trying to put the body in the mind and the mind in the body. Although I am still proposing a model—a way of seeing and engaging and a way of evaluating our surroundings as a human construction—it can operate with an extremely high degree of singularity. And the important thing is to acknowledge that it is merely a construction, which means that we are not offering a higher state of truth or truthfulness. I can’t say, “Now I’ve got the right model.” It’s not about utopia or anything final. (....)





26.2.12

Toni Negri: recensione di Opus Dei di Giorgio Agamben @ Il Manifesto (24.02.2012)




Toni Negri: recensione di Opus Dei di Giorgio Agamben @ Il Manifesto (24.02.2012)

La pubblicazione di «Opus dei» del filosofo italiano per Bollati Boringhieri è la conclusione di un percorso teorico inziato con «Homo Sacer». La posta in gioco è sempre stata teoretica, cioè l'essere, e ha comportato un corpo a corpo con «l'ideologia europea». Ma ad ogni tappa sono stati affrontati temi centrali in una auspicabile politica della trasformazione. Un nichilismo radicalizzato dove non c'è spazio per la storia. Il conseguente rifiuto dell'azione è da considerare come il ritrarsi inorridito rispetto alle domande poste da quella assoluta normalità che è ormai diventato lo "stato di eccezione".


Con questo Opus dei (Bollati Boringhieri, pp. 155, euro 15) sembra concludersi il cammino che il filosofo italiano Giorgio Agamben ha intrapreso con Homo Sacer. Un bel tratto di strada, dai primi anni Novanta del Novecento, un ventennio. Un'archeologia dell'ontologia condotta (con un rigore che neppure il gioco bizzarro e fuorviante dei numeretti messi a fingere un ordine per diversi stadi della ricerca è riuscito a rendere opaco) - fino ad una riapertura del problema del Sein (l'essere). Uno scavo quale neppure a Martin Heidegger (a dire dell'autore che qui si rivendica giovane allievo del filosofo tedesco) era riuscito - perché qui l'ontologia è liberata da ogni vestigia di «operatività», da ogni illusione che essa possa legarsi alla volontà ed al comando. Che cosa ne resta? «Il problema della filosofia che viene è quello di pensare un'ontologia al di là dell'operatività e del comando, e un'etica e una politica del tutto liberate dai concetti di dovere e volontà».
La dimostrazione che l'ontologia criticata da Heidegger sia ancora, al fondo, una teoria dell'operatività e della volontà, è idea indubbiamente vera. Già Schürmann l'aveva sviluppata quando aveva criticato il Sein come l'idea stessa di «arché», e dunque come indistinzione di inizio e di comando. Seguire lo sviluppo e l'organizzazione successiva di quest'ontologia dell'operatività, che dai neoplatonici ai padri della Chiesa, dai filosofi latini a Kant, da Tommaso a Heidegger pone un'idea dell'essere completamente assimilata a quella della volontà/comando, è compito da Agamben qui assolto con grande maestria.







In debito con la religione
Aristotele, prima di tutti. Nella sua teoria della virtù come abito, egli avrebbe potuto strappare l'essere ad ogni pulsione aporetica verso la virtù e così liberarsi di ogni operatività valorifica: non ce la fa, pur essendo colui che, alle origini della metafisica, aveva concepito la virtù come rapporto con la privazione e come determinazione ontologica inoperosa. Ma di qui in avanti - secondo Agamben - le cosa vanno di male in peggio. Nel cristianesimo (ancora una volta l'immersione nel rapporto fra neoplatonismo e patristica sollecita Agamben nel suo procedere) azione e volontà cominciano a farla da padroni. Lasciamo ai medievisti il giudizio sulla correttezza dell'analisi agambeniana: a noi basta seguirne il filo che mostra una indubbia coerenza. Ora, l'aporia aristotelica che si definiva nell'alternativa di collegare (o non collegare) l'abito e la virtù, l'essere ed il dovere, la passività e l'attività, nella Scolastica viene meno. L'abito critico è piuttosto ordinato costitutivamente all'azione e la virtù non consiste più nell'essere ma nell'operare - ed è solo attraverso l'azione che l'uomo si assimila a Dio. Così in Tommaso: «È questa ordinazione costitutiva dell'abito all'azione che la teoria delle virtù sviluppa e spinge all'estremo». D'ora in poi la storia della metafisica, scarnificata dall'archeologia critica, mostra una bella continuità e rivela una sorta di ansia perversa (secondo Agamben) di svolgere ed approfondire quel principio operativo dell'etica e quel concetto di virtù come obbligo e dovere che la teologia medioevale le aveva concesso in eredità. Il «debito infinito» in cui consiste, secondo i filosofi della Seconda Scolastica, il dovere religioso, viene così definitivamente impiantandosi nelle metafisiche della modernità. Con Kant fa la prima comparsa l'idea di un compito e di un dovere infiniti, irraggiungibili ma non per ciò meno doverosi. In un passo esemplare Agamben riassume: «Qui si vede con chiarezza che l'idea di un "dover-essere" non è soltanto etica né soltanto ontologica: essa lega, piuttosto, aporeticamente essere e prassi nella struttura musicale di una fuga in cui l'agire eccede l'essere non soltanto perché gli detta sempre nuovi precetti, ma anche ed innanzitutto perché l'essere stesso non ha altro contenuto che un puro debito». Nelle pagine successive Agamben insiste polemicamente sull'interiorizzarsi dell'idea della legge morale, sul suo approfondirsi della forma dell'autocostrizione e persino del piacere masochista nella legge. «La sostituzione del "nome glorioso di ontologia" con quello di "filosofia trascendentale" significa, appunto, che un'ontologia del dover-essere ha preso ormai il posto dell'ontologia dell'essere».
Una trattazione ed una conclusione del tutto heideggeriane, si direbbe. E però, lo si avverte da subito, questo riferimento delude Agamben. «Anche Heidegger sviluppa un'ontologia che è più solidale di quanto si creda con il paradigma dell'operatività che intende criticare». Restiamo stupiti da questa affermazione. Non era dunque andato abbastanza avanti Heidegger nella sua distruzione dell'ontologia della modernità? Non aveva già abbastanza scarnificato il Sein - l'essere - di quanto di umano gli si poteva attribuire? No - insiste Agamben - c'è un punto nel quale Heidegger cede alla tentazione di un'ontologia operativa: sono la teoria della tecnica, la critica del Gesell che scoprono questa irresolutezza. «Non si comprende l'essenza metafisica della tecnica, se la si intende solo nella forma della produzione. Essa è, altrettanto e innanzitutto governo e oikonomia, che, nel loro esito estremo, possono anche mettere provvisoriamente fra parentesi la produzione causale in nome di forme più raffinate e diffuse di gestione degli uomini e delle cose». Auschwitz insegna!
Già nel Regno e la gloria, con un po' di attenzione, si sarebbe potuta leggere questa conclusione.



Il distacco da Heidegger

Qui mi nasce un sospetto. E cioè che questo libro, Opus Dei, benché riassuma e sviluppi, come già detto, le analisi di Il Regno e la gloria, in realtà non sia solo il completamento di quel filone archeologico di pensiero e di lavoro agambeniani. Questo libro segna piuttosto il definitivo distacco di Agamben da Heidegger: la scelta ontologica sovrasta la qualità archeologica dell'analisi e lo scontro si innalza a livello fondamentale. Heidegger è qui accusato d'esser riuscito solo ad una provvisoria soluzione delle aporie dell'essere e del dover-essere (ovvero dell'operatività): indeterminazione più che separazione, più che scelta di un altro terreno ontologico. Debbo ammettere di aver provato una certa soddisfazione rilevandolo. Ma essa fu breve. Qual è infatti il Sein ulteriormente imperscrutabile che Agamben ora, pur contro Heidegger,ci propone? Già una volta, nel 1990, prima di avventurarsi nella lunga vicenda dell'Homo Sacer, in La Comunità che viene, Agamben si era allontanato da Heidegger: aveva allora ceduto ad una sollecitazione benjaminiana, quasi marxista, nel promuovere una sfida sul senso umanistico dell'essere. Ora, non è certo in questo senso che Agamben procede. Si muove, al contrario, contro ogni umanesimo, contro ogni possibilità di azione, contro ogni speranza di rivoluzione.
Ma come ci è arrivato, Agamben, a questo nihilismo radicalizzato, agitandosi nel quale si compiace di aver superato (o portato a termine) il progetto di Heidegger? Ci arriva attraverso un lungo percorso che si articola su due direzioni: una di critica propriamente politico-giuridica, l'altra archeologica (uno scavo teologico-politico). Carl Schmitt è al centro di questo cammino: ne guida le due direzioni, quella che porta alla qualificazione del potere come eccezione, e dunque come forza e destino, strumentazione assoluta e senza qualità di ogni tecnica, e sadismo della finalità; d'altro lato quella che porta alla qualificazione della potenza come illusione teologica, ovvero impotenza, e cioè affidamento impossibile all'effettualità, quindi: incitamento all'inoperatività, quindi denuncia della frustrazione necessaria del volere, del masochismo del dovere. Le due cose vanno assieme. È quasi impossibile, recuperata l'attualità dei concetti schmittiani dello «Stato di eccezione» e del «teologico-politico» comprendere se essi rappresentino il più grande pericolo o invece se si tratti semplicemente di una apertura alla loro verità. La metafisica e la diagnostica politica si arrendono all'indistinzione. Ma ciò sarebbe forse irrilevante se in questa indistinzione non fosse annegata ogni possibile resistenza. Ritorniamo alle due linee identificate: tutto il percorso che segue Homo Sacer si svolge su questo doppio binario. La seconda linea è sommarizzata da Il Regno e la gloria.

La virtù efficace

Insistiamo: anche questa seconda linea è mossa dalla Teologia politica di Carl Schmitt e dal confronto con l'ontologia di Heidegger. Diciamo questo per evitare che si confonda l'archeologia di Agamben con quella di Foucault. In Agamben manca la storia, quella storia che in Foucault non è solo archeologia della modernità ma genealogia attiva del presente, del suo darsi come del suo disfarsi, del suo essere come del suo divenire. La storia, per Agamben, non esiste. Meglio, è al massimo storia del diritto, che è appunto il solo luogo dove il filosofo può farsi grammatico ed analista delle grammatiche del comando. Ma certamente anche il luogo dove biopolitica e genealogia possono presentarsi solo in maniera lineare - come destino, appunto. Perché qui neppure l'ombra della soggettività, della produzione, appare - ed anzi sembra che anche quest'ultima sia totalmente sommessa al blocco del fare, della tecnica, dell'operare e, soprattutto, della resistenza. Non stupiscono allora, in Opus Dei, le esemplificazioni giuridiche che Agamben presenta a definitiva prova delle sue tesi. L'assolutizzazione del dovere nel diritto sarebbe stata introdotta da Pufendorf più che da Hobbes (e questo processo si conclude con Jean Domat). Può darsi. Una lontana storia seicentesca, dunque, che marcia in contemporanea con la nascita e lo sviluppo della Seconda Scolastica (quanto le deve lo stesso Heidegger!) e della definitiva stabilizzazione di una metafisica dell'operosità, della virtù efficace. Ma soprattutto importante, perché è Kant che riprende questo motivo e, dopo Kant, Kelsen lo assolutizza nella figura fondamentale del dovere giuridico, del Sollen. Si ricordi: non è tanto la conclusione kelseniana che pur afferma la relazione fra diritto e comando come doverosa, ad essere qui importante; l'importanza sta nel fatto che essa riprende - mille miglia lontano dalla sua prima affermazione, eppure vivente in tutta l'«ideologia europea» - quel nesso interno alla liturgia che va dall'operatività economica all'essere divino, scendendo omogeneamente attraverso le deduzioni giuridiche, fino alla necessità fondante del Sollen: tutto ciò non rappresenta altro che il comando imperscrutabile della divinità. Così, di Kelsen, si è fatto l'uguale di Schmitt e le due linee aperte da Homo Sacer, si ricompongono: da un lato la critica dell'eccezione e dall'altro la critica del Sollen, filtrata nella oekonomia cristiana, in definitiva si unificano. Ma se questa riduzione può essere - a grandissime linee e su un terreno che ormai non è più né giuridico né politico - accettata; se è vero che la pratica di governo fondata sul diritto di eccezione e sulla pretesa dell'efficacia economica, hanno sostituito ogni forma costituzionale di governo; se, come ricordava Benjamin tanto tempo fa, «ciò che è ormai effettivo è lo stato di eccezione nel quale viviamo e che non sapremmo più distinguere dalla regola»: bene, ciò detto, che cosa secondo Agamben può liberarci?


La liberazione dal concetto e dalla potenza di volontà
Giungiamo così al termine di un cammino complesso. Occorre liberarci dal concetto e dalla potenza di volontà: così Agamben comincia a rispondere alla questione. Dobbiamo liberarci dalla volontà che si vuole istituzione, che si vuole efficacia ed attualità. Le ragioni le conosciamo. Nella filosofia greca dell'età classica il concetto di volontà non ha significato ontologico; questa deturpazione ontologica viene introdotta dal cristianesimo, forzando elementi embrionalmente presenti in Aristotele; così il dovere è introdotto nell'etica per dare fondamento al comando; così l'idea di una volontà è elaborata per spiegare il passaggio dalla potenza all'atto. In tal modo tutta la filosofia occidentale è posta dentro un terreno di insolubili aporie che trionfa nella modernità piena, con il ridefinirsi del mondo come prodotto di tecnologia e di industria (che cosa è più evidente del realizzarsi, del divenire efficace del potere nella realtà, nell'attualità - che cosa più di questo orizzonte?). Di nuovo si impone la questione: come uscirne? Come riconquistare un essere senza effettualità? Che bell'enigma ci ha regalato Agamben! Ci sarebbe forse una via che Agamben a questo punto potrebbe ancora percorrere. È quella dello spinozismo, cioè una via nella quale la potenza si organizza immediatamente come dispositivo di azione, dove violenza e piacere si determinano nelle istituzioni della moltitudine e la capacità costituente diviene sforzo di costruire, nella storia, libertà, giustizia e comune. Agamben percepisce questa via d'uscita, perfettamente atea. La coglie infatti nell'insultante rifiuto dell'ateismo di Spinoza che, in un momento critico della modernità, Pufendorf e Leibniz dichiarano. Ma l'essere che Agamben ci presenta è, per ora, talmente nero e piatto, l'immanenza così indistinta, l'ateismo così poco materialista, il nihilismo talmente triste che Spinoza davvero non può stare al gioco - pur considerando, egli, superstizione ogni ideologia dello stato che non fosse prodotto della moltitudine e, fondamento intransitivo di libertà, il corpo (i corpi della moltitudine). Né Spinoza, d'altra parte, sta ad attendere che le forme di vita dell'Occidente siano giunte alla loro consumazione storica (rifiutando nel frattempo di agire perché la volontà non morderebbe l'effettualità). Sa invece dare risposta alla domanda sull'agire, sulla speranza, sul futuro.

Il positivo che avanza
Che cosa sono i Lumi? È questa la domanda che attraversa, con la filosofia di Spinoza, quelle di Machiavelli e di Marx - e che, nell'attualità, è stata ripresa da Foucault. Contro il nazismo ontologico di Heidegger. In fondo, l'unico luogo del lungo tragitto percorso da Agamben, nel quale la soglia ontologica di potenza potrebbe essere raggiunta, è quando, spostando l'accento dalle forme linguistiche dell'essere storico, la forma di vita si stacca non dal diritto in astratto ma da quel diritto storicamente dato (cioè dal diritto di proprietà), non dal comando in generale ma da quel comando che è della produzione capitalistica e del suo Stato. Lavorare alla dissoluzione del diritto di proprietà e della legge del capitalismo è l'unico nihilismo operativo che gli uomini virtuosi proclamano e agiscono. Ma anche questa ipotesi Agamben scarta, recentemente, in Altissima povertà.
Come finirà questa storia? C'è una questione che, a fronte di un discorso come quello di Agamben, nuovamente si apre: potrà forse la forma - ovvero l'azione o l'istituzione - salvarsi dalla distruzione di ogni contenuto doveroso? Chi, a questo proposito, insiste su toni e negazioni anarchiche è tanto irritante quanto chi pensa che la continuità dell'istituzione o l'annullamento di ogni azione negativa rappresentino la condizione di un radicale passaggio in avanti. Probabile è invece, contro questi estremismi, che come in altre epoche rivoluzionarie anarchismo e comunismo, in forme nuove, sempre di più, nelle lotte che attraversano il nostro secolo, stiano riavvicinandosi. In ogni caso, la sola cosa certa è, spinozianamente, che «l'uomo guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un decreto comune, che nella solitudine dove obbedisce soltanto a se stesso».

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