23.12.15

Le lettere di Foucault e la musica di Deleuze di Tòmas Abraham @ Biropress/bironcho, 22 dic. 2015


Le lettere di Foucault e la musica di Deleuze

di Tòmas Abraham @ Biropress/bironcho Leggi QUI

Questo appassionante saggio, analizza il fenomenale corso che Gilles Deleuze ha dedicato nel 1986 alla riflessione di Michel Foucault sul potere, ed è una bozza del suo libro, sul filosofo di “Sorvegliare e Punire”; ci offre così, il beneficio di percorrere, quello che è il processo di sviluppo del suo pensiero, senza fra l’altro nascondere le sue esitazioni agli studenti. È interessante notare, che nei suoi corsi del martedì, presso l’Università di Vincennes, Deleuze si accomoda nella sua scrivania con una pila di libri contrassegnati con divisori e senza appunti. Ognuna delle undici esposizioni del trimestre, ha decine di pagine, dove spesso la parola dell’insegnante cade nel vuoto, tant’è che lui stesso insiste con i suoi studenti, affinché gli facciano delle domande, per rompere così, il suo persistente silenzio. Più di una volta dice di essere esaurito, e allo stesso tempo, ammette che le sue dichiarazioni sono difficili da capire anche per lui, e il grado di astrazione cui arriva il suo pensiero, testimonia questa difficoltà.
Ora, se mettiamo a confronto i testi dei corsi pubblicati da Foucault con quelli da Deleuze, il contrasto non può essere maggiore. Il primo, leggeva lo scritto preparato meticolosamente; concettuale, precisione argomentativa, ordinamento didattico, ma anche eleganza nello stile. Non è il caso di Deleuze che, come dice egli stesso, cerca di sistematizzare al momento, in un corpo teorico, i ragionamenti che Foucault aveva deciso di conservare in uno stato pratico, sulla necessità analitica delle sue ricerche; inoltre, propone un nuovo vocabolario da sovrastampare sul materiale in discussione.

Diagramma del modello disciplinare

L’obiettivo del corso, dunque, come dicevamo, è quello di presentare il pensiero di Foucault sul potere, e Deleuze lo fa, partendo dalla lettura di Nietzsche, privilegiando la nozione di “forza“. Nel corso precedente, dedicato a “Sapere” sempre nel lavoro di Foucault, si occupa delle forme sedimentate in strati secondo una procedura “archeologica“, questa volta, tratta sulla molteplicità delle forze in tensione. Queste forze non hanno qualità – Deleuze afferma che il potere è transqualitativo – sono parte di una dinamica, il cui significato è di imporre una carica di energia e dominare le altre forze che a queste resistono. Il modo in cui le forze agiscono è variabile e acquista la sua caratteristica distintiva in ciò che egli chiama “diagramma“. Questo termine appare come decisivo, pur apparendo solo una volta negli scritti di Foucault; per capire come l’atto dei “diagrammi” agiscono, Deleuze ritiene necessario fare alcuni chiarimenti, tornando al suo corso precedente, dove parla di due modi in cui la conoscenza si materializza: visibilità e dichiarazioni. Ora, sappiamo che il pensiero di Foucault, è quello di un filosofo, che ha legato i suoi discorsi, agli spazi d’implementazione: le case di cura, gli ospedali, le carceri, i conventi, le officine, i magazzini, i lebbrosari, mostrando queste istituzioni, in cui l’applicazione delle norme e le razionalità messe in gioco, presuppongono un ordinamento in cui i corpi, occupano posti per un occhio che custodisce, che li separa, li gerarchizza, li discrimina, li potenzia o li elimina. Ecco, Deleuze chiama visibilità, ciò che viene a galla, qualcosa su cui si è fatto luce, prodotti specifici dichiarati, estratti da un magma linguistico. Luce e linguaggio – fattori condizionanti allo stesso modo dei priori kantiani di spazio e tempo – non sono necessariamente simmetrici né analogici, ma, al contrario, sono disposti secondo una serie parallela e divergente, e quando s’incrociano, producono un evento, non attribuibile a una necessità o determinazione storica e nemmeno a una predestinazione di origine. Vediamo dunque, un intervento dell’azzardo, in una concezione della storia, in cui primeggia una contingenza articolata, in un modo reticolare, che darà luogo a dispositivi di sapere-potere. Così è accaduto, ad esempio, con l’asilo e la prigione, dove i discorsi di medicina e del diritto, degli alienisti e i riformatori, hanno seguito le proprie linee argomentative; discussioni interne riguardo alle loro discipline, estranei dunque, a progetti architettonici e alle modificazioni degli spazi di chiusura, che vanno dall’ospedale generale alle cliniche psichiatriche o alle aree di agglomerazione degli emarginati nella galera, divise in celle, destinate alla figura del delinquente.
Deleuze sostiene che l’incrocio tra il livello enunciativo e quello della visibilità, s’intende con l’intervento di un terzo asse, chiamato asse di potere o diagramma. Quest’asse distribuisce le singolarità sparse, e le inserisce in una curva che lui descrive con un lessico importato dal calcolo infinitesimale: derivati, integrali, passaggi al limite, ma che è inutile riportare, perché non aiuterebbero molto, a comprendere un contenuto di questa portata.Non è facile sintetizzare le quattrocento pagine di questo corso che si sommano alla stessa quantità di pagine pubblicate nel precedente trimestre, possiamo solo tentare, di fermarci, nelle principali linee di argomentazione: una forza agisce sempre su un’altra forza. Le forze sono dispari. Bisogna padroneggiare una molteplicità dei”senza nomi”. La nominazione è data dai dispositivi del sapere. Deleuze definisce il sapere come “l’arte di gestire materie formate e funzioni formalizzate“; studenti, detenuti, pazienti, operai, sono la materia, le funzioni formalizzate sono quelle di insegnare, vigilare, curare, controllare. Il potere, perciò, non è una proprietà, né un attributo né una capacità, e non viene identificato con la violenza o la repressione, è qualcosa di molto più sottile e sfuggevole, questo, si esercita secondo strategie mutevoli per imporsi ad una moltitudine, attraverso processi d’istigazione, induzione, persuasione. Gli obiettivi del potere sono la conservazione dei privilegi, l’accumulo dei profitti, l’applicazione di un’autorità statutaria, o l’esercizio di una funzione. Il metodo strumentale del potere si manifesta con la minaccia delle armi, effetti della parola, la disuguaglianza economica o meccanismi di controllo. Le sue forme d’istituzionalizzazione sono la famiglia, la scuola, l’esercito, ecc. e lo scopo di un’istituzione è la riproduzione del potere. Potere che si applica, come una forza nello spazio-tempo, nel quale si racchiude, si fa quadrato, si serializza; può essere implementato secondo il modello della peste, come quello del panopticon, un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, dove, un sorvegliante può osservare (opticon) tutti (pan) i soggetti di una istituzione carceraria, senza permettere a questi di capire se sono in quel momento controllati o no. Questo nome si riferisce anche ad Argo Panoptes della mitologia Greca: un gigante con un centinaio di occhi, considerato perciò un ottimo guardiano.
In Foucault, come sottolinea Deleuze, vediamo il diagramma del potere nella modernità, seguire due piste: un meccanismo destinato a piccole parti di popolazioni in spazi limitati, che egli chiama anatomo-política dei corpi, percorsi da un occhio esaminatore, e la bio-politica delle popolazioni, in cui si elabora la gestione della vita di una grande molteplicità in uno spazio aperto, in base alle proiezioni probabilistiche. Deleuze distingue poi, il diagramma di sovranità dell’epoca feudale, in cui una forza estrae energia da altre forze, dal diagramma del modello disciplinare, in cui la costruzione della forza risultante è maggiore della somma delle forze dei suoi componenti. Da un modello estrattivo a un altro produttivo. Inoltre, estende gli esempi diagrammatici al potere pastorale, caratterizzati dalla sua attenzione individualista, in cui, ogni pecora del branco umano, viene identificato e preso in considerazione nella sua unicità, fino alla città greca dove primeggia la rivalità tra i maschi liberi. Le mutazioni che fanno passare da un diagramma ad un’altro, sono dovute a punti di resistenza.
Negli ultimi capitoli del libro, si legge la sorprendente interpretazione della “morte dell’uomo“, in corrispondenza con l’annuncio nietzscheano del superuomo o oltreuomo.
Deleuze rileva che nel XVII secolo, quello che è il periodo classico, gli attributi dell’uomo si mediano secondo un ideale di perfezione, in cui Dio smette di essere un Creatore per identificarsi con l’infinito. Cartesio, Pascal, Spinoza e Leibniz, sono i filosofi che hanno sviluppato sistemi in cui Dio è il garante nominale di un ordine metafisico. Nel XIX secolo, la figura dell’uomo, ripiega, verso la finitezza. Kant nella filosofia, Sade nella letteratura, e le discipline empiriche quali la biologia, la filologia e l’economia politica, illustrano la nuova dispersione in ambiti della conoscenza finita, comparativa, e organizzata secondo criteri di profonda rottura con la serializzazione infinita dello spazio rappresentativo. L’antropologia filosofica e la fenomenologia cercheranno di legittimare a partire dalla figura di “uomo” il fondamento di queste nuove conoscenze. Oltre l’uomo“, si intravede la rivalsa del silicio contro il carbonio con le macchine cibernetiche; nei codici genetici si dissolvono le identità delle specie in eliche e combinatorie, che le modificano attraverso rotture di codici, e in ciò che Deleuze chiama in maniera eclatante: “letteratura, la cui attuale presenza non è ancora molto chiara, a meno che non si tratti di un tentativo forse intempestivo e anacronistico di riscattare il linguaggio.
Le pagine finali del corso sono un perfetto esempio, della portata dell’immaginazione teorica di Deleuze, e la sua libertà di mettere in relazione singolarità teoriche, dissipare luoghi comuni, e percorrere quello che chiama invocando Pierre Boulez, “spazio liscio” della sonorità musicale. Certo che, almeno per alcuni lettori e gli appassionati di filosofia, il pensiero filosofico ha le lettere di Foucault e la musica di Deleuze. Questo libro è un altra delle sue partiture.

22.12.15

Alan Pauls: L'ultimo Deleuze @ Commonware, 21 Dic. 2015


L’ultimo Deleuze


di ALAN PAULS @ Commonware website
Foucault pronosticò che il secolo – un secolo, fu attento a non specificare quale – sarebbe stato deleuziano. Forse aveva ragione, ma il mercato parigino delle commemorazioni non glielo avrebbe reso facile. Se c’era un anno capace di mostrare come sarebbe il mondo se il presagio foucaultiano si realizzasse, era il 2015: il 18 gennaio sono stati 90 anni dalla nascita del filosofo e il 4 novembre 20 dalla sua morte. Purtroppo, se è stato ricordato, entrambi gli anniversari sono passati piuttosto inosservati, sepolti dalla valanga di memorabilia precipitati per un evento rivale: il centenario della nascita di Roland Barthes. Niente di più imbattibile, nel momento del ricordo, che un numero così rotondo. Ed è vero che l’opera di Barthes, egotista e sensuale, e l’aura di soave affabilità che avvolgeva il suo autore, anche con la sua patina di lunatica malinconia, erano più inclini a suscitare l’entusiasmo esumatorio, che una fine tragica e decisa come quella di Deleuze, il quale, estenuato dal calvario di una prolungata insufficienza polmonare, si uccise gettandosi nel vuoto da una finestra del suo appartamento di Avenue Niel. Aveva quasi settantuno anni.
Barthes si è visto ovunque. Oltre all’Album, una massiccia raccolta di lettere inedite e materiale fotografico, sono esplose biografie, libri di saggi, omaggi di discepoli in trance, le lettere aperte di vecchi compagni di viaggio, testimonianze di amici, conoscenti e fedeli, numeri speciali di riviste, serate tributo e simposi internazionali. C’è stato addirittura spazio per una cronaca romanzata ostinatasi nella tesi ardita che l’incidente che gli costò la vita nel 1980, dopo essere andato a mangiare con il presidente Mitterrand, fu dovuto meno all’imperizia del conducente del camion che lo colpì che a un oscuro complotto orchestrato dalla crème de la crème intellettual-criminale parigina. Mentre Barthes, morto, è molto più in compagnia di quando era vivo, Deleuze non fa che approfondire la sua solitudine. Timido quasi fino al silenzio, l’anniversario del suo suicidio non ha aggiunto molto alle briciole già rese pubbliche in vent’anni di posterità. Uno speciale di Mediapart, rivista online di solito perspicace, ha dilapidato l’eredità di Deleuze tra una mezza dozzina di stupidotti che, con dosi variabili di acne e insolenza, hanno ripetuto elegie del tipo “Non l’ho mai capito, ma l’ho sempre sentito con me”.
Di materiale inedito c’era poco o nulla. Era prevedibile: Deleuze faceva della mancanza del residuo una militanza. Non gli avanzò mai nulla. Tutto quello che sapeva lo sapeva per insegnarlo e per scriverlo, e tutto ciò che ha scritto lo scriveva per la pubblicazione. Filosofava contro l’archivio: nessuna riserva, zero risparmio, nessun capitale da conservare per il futuro. A differenza di Barthes, il cui centenario ha riattivato le promesse sopite di una socialità equivoca, a volte amorosa, intellettuale e mondana, Deleuze non ha meritato ricordi personali che d’altronde avrebbe respinto. Anche in questo – lui, che ha trascorso gli ultimi anni affinando il concetto di vita impersonale – era nemico del conservare. Nemmeno la sua vita privata gli era propria; quel poco che si sa – è la tesi implicita di Gilles Deleuze, Félix Guattari. Biographie croisée di François Dosse – è inestricabilmente intrecciato con la vita e la pratica filosofica. Vivere, pensare, forse creare... ma mai accondiscendere alla volgarità di una biografia. Per contro, aprirsi senza scrupoli a tutte le ripercussioni, a tutti i debordamenti possibili: Deleuze e la scienza, Deleuze e l’estetica, Deleuze e l’arte contemporanea, Deleuze e la letteratura, Deleuze e la politica, Deleuze e la pop-filosofia... anche a rischio di generare effetti epigonali, mimetici o semplicemente pubblicitari. Può darsi che “divenire”, “rizoma” o “molteplicità” oggi brillino più come marchi di case di produzione cinematografiche e di negozi di design che come i concetti radioattivi che furono, ma in questa condizione virale, in grado di infettare anche i campi più refrattari alla filosofia, sta il segreto della vitalità di un’immagine di pensiero che, del resto, non sarebbe quella che è se non ospitasse anche quell’alter ego che Deleuze non ha mai smesso di essere: un filosofo “puro”, destinato a leggere e rileggere molto da vicino altri filosofi (Bergson, Spinoza, Hume, Leibniz) per poi eventualmente, come egli stesso disse, “arrivare alle spalle... e fargli fare un figlio”: qualcuno disposto a morire per l’idea che pervertire un pensiero è continuare a comprenderlo con altri mezzi.
Vent’anni senza Deleuze hanno partorito una legione di tediosi fotocopisti, ma anche i riconoscimenti di pari illustri, e non necessariamente sincroni (Alain Badiou), glosse di discepoli geniali e anche tragici (François Zourabichvili, altro suicida) e soprattutto la fedeltà scrupolosa di David Lapoujade, un giovane esperto di pragmatismo anglosassone (ha scritto un libro formidabile sui fratelli James, William il filosofo e Henry il narratore), che, mentre incubava quella che è risultata una delle monografie più personali sul maestro (Deleuze, les mouvements aberrants del 2014), si caricava sulle spalle la compilazione di tre volumi postumi di Deleuze: L’isola deserta e altri scritti (2002), Due regimi di folli (2003) e il recente Lettres et autres textes, pubblicato appena un mese fa da de Minuit, editore di Deleuze da L’anti-Edipo (1972) in poi. Le Lettres saranno l’ultimo volume della serie; nulla più, si presume, apparirà sotto la firma Gilles Deleuze, nulla se non con l’autorizzazione del comitato che gestisce la sua eredità, composto da Fanny e Emilie Deleuze, la vedova e la figlia del filosofo, e Irène Lindon, figlia di Jerome Lindon, mitico fondatore di de Minuit. Questo volume è forse il più eccentrico e deforme dei tre, tanto rivela aree della sua opera e della sua vita che Deleuze ha scelto di tenere sempre in ombra: un Deleuze vignettista (autore di caricature strane, di un grottesco incongruente, come un Lino Palacio rivisitato da Artaud nel periodo di Rodez); un Deleuze preistorico, filosofo cucciolo che a metà degli anni ’40, mentre recensisce classici dell'esistenzialismo cristiano, riflette sui “sentimenti fuorilegge” (l’onanismo, la pederastia, il lesbismo) e sferza con misoginia baudelairiana: “La donna è coscienza inutile. Una coscienza gratuita, autoctona, indisponibile. Non serve a nulla. Un oggetto di lusso” (questi testi “di gioventù” sono gli unici che Deleuze rinnegò: se ora vengono pubblicati è per neutralizzare con una versione “ufficiale” le riproduzioni che proliferano sul web, spesso piene di errori); e un Deleuze corrispondente, tanto metodico (rispondeva a tutte le lettere che riceveva) quanto trascurato (era solito buttare via le sue risposte), che dialogava per iscritto con i colleghi (Clément Rosset, Michel Foucault, Pierre Klossowski, François Châtelet) e seguiva generosamente dottorandi e ammiratori (André Bernold, Arnaud Villani), ma raramente datava i suoi invii e non archiviava mai quello che riceveva, fedele alla sventatezza tattica con cui la sua generazione è riuscita a cancellare tutte le tracce biografiche (Lapoujade dice che Jean-Pierre Bamberger, amico intimo di Deleuze, non aveva idea dell’anno in cui Deleuze discusse la sua tesi, ma si ricordava perfettamente la giacca che indossava quel giorno).
Le lettere occupano meno di un centinaio di pagine, ma dato il tabù che pesa sul lascito personale di Deleuze, sono rivelatrici come un’impronta digitale insanguinata. È epistolare l’estasi di gratitudine che Deleuze confessa a Foucault dopo aver letto il suo Theatrum Philosophicum (il saggio del 1970 dove Foucault pronuncia il suo famoso presagio sul “secolo”), come anche il riconoscimento dell’enorme debito teorico che le tesi più forti dell’Anti-Edipo hanno con certi saggi di Pierre Klossowski. In realtà, come dimostrano le quattordici lettere a Guattari scelte da Lapoujade, gran parte del lavoro a quattro mani che alimentò L’Anti-Edipo fu fatto per lettera, senza darsi del tu, in un ping-pong speculativo di travolgente intensità, matrice del tandem filosofico più radicale che offrirà il post ’68, dove Deleuze si dà il lusso di confessare l’inconfessabile: che non capisce, che questa o quella linea di ragionamento gli sfugge, che ha bisogno di tempo, di più tempo, per arrivare dove lo aspettano le ipotesi radicali di Guattari. La stessa modestia, in una versione forse più perturbante, appare quando Deleuze, nella corrispondenza con i suoi discepoli, accetta malvolentieri che decidano di dedicarsi alla sua opera, e solo dopo avergli estorto la promessa che non legheranno la loro carriera accademica a lui, al suo nome e al suo pensiero (che, data la condizione controversa del lavoro di Deleuze, li avrebbe potuti danneggiare), perché “sono già troppo filosofi per occuparsi di me”.
Troppo personale, troppo giovane, è questo Deleuze, che sbanda, mostra gratitudine, si perde e trema, tanto che ci costa riconoscerlo e ci commuove, forse perché non si vede quale soluzione di continuità potrebbe imparentarlo con il samurai implacabile, affermativo, virulento e allegro che siamo abituati a immaginare leggendolo o quando pensiamo nel suo nome. Lapoujade, tuttavia, non lo dimentica. Anche se non senza ironia, gli fa un po’ di spazio includendo nel libro, quasi al centro, l’intervista maratona (quaranta pagine!) che Raymond Bellour fa a Deleuze e Guattari nel 1972, in occasione dell’uscita dell’Anti-Edipo, l’unico vero inedito del volume e una delle poche interviste a Deleuze pubblicata a partire dalla trascrizione di un nastro audio (Deleuze controllava la redazione di tutte le sue interviste).
È il momento più divertente del libro, grande passo di commedia rive gauche. Bellour, giovane e intimidito, è una vera promessa della french theory. Deleuze e Guattari sono sulla cresta dell’onda, carichi di arroganza e disprezzo, convinti di aver collegato in una invenzione miracolosa – la schizoanalisi –, finalmente, due forze che al marxismo e alla psicoanalisi non è stato sufficiente l’intero ventesimo secolo per fondare e alterare: la produzione e l’inconscio. “Siamo i primi ad annunciare – dichiara Deleuze – qualcosa che sta già avvenendo, e che non ha dovuto aspettare noi per succedere: che le cose non passeranno più per la lettura di Freud e la psicoanalisi, passeranno attraverso la sperimentazione”.
L’intervista è brusca, incredibilmente combattuta: un festival di colpi di petto dove risuonano quasi senza filtro le raffiche dell’epoca. Bellour, timido, chiede se è possibile teorizzare il desiderio senza la nozione di mancanza. Guattari (probabilmente influenzato dal rancore che gli ispirava Les Temps Modernes, la rivista dove l’intervista [non] si pubblicherà) reagisce: “La peggiore delle astrazioni! Mancanza di che cosa? Di vitamine, di ossigeno? (...) La tua domanda è marcia”. Bellour balbetta: il nomadismo, ok, va bene, nello spazio ideale dei romanzi di Beckett, in Michaux, Joyce, d’accordo, ma... E Guattari, saltandogli addosso “Stai per dire una stronzata! Finisci la frase, dirai una stronzata, dai. Che, che, che... tutto questo è letteratura?”. Ronzano i proiettili nel tardo pomeriggio. Guattari è chiaro: è pronto a tutto. Ma chi è Deleuze in questa battaglia campale? È quello che si prende la colpa. “Tutto il lato universitario del libro è colpa mia”, dice. E ammette che non può rispondere (perché il problema che gli viene posto è troppo complesso). È quello che si riconosce interpellato dalla differenza, sia per negarla (“No, non c’è differenza tra Felix e me”), sia per addolcirla (“Felix dice: Siate edipici fino in fondo; Io, invece, direi: Scoprite qualcosa di più puro sotto le sporcizie edipiche”). In altre parole, Deleuze – anche al culmine della sua belligeranza – è fragile, delicato, non pensa di deporre le armi ma favorisce sempre l’interlocuzione (anche quando l’interlocutore si confonde con un bersaglio), perché solo nell’interlocuzione il pensiero irrompe come pericolo. Se Guattari è l’agitatore, Deleuze è qualcosa di anacronistico come un professore, nel senso più francese (Foucault, Derrida, Badiou, lo stesso Barthes, tanto snobbato dall’istituzione universitaria, dove hanno pensato tutto ciò che hanno scritto, se non nell’ambito istituzionale dell’insegnamento?), più ospitale e più esplosivo della parola.

* Pubblicato su Radar supplemento di Página/12, traduzione di Vincenzo Boccanfuso e Andrea Fagioli.

13.12.15

A destra o sinistra, una via d’uscita, qualunque sia di Vincenzo Carboni @ Teatro.persinsala.it (12.12.2015) - Recensione di 'Una relazione per un'accademia' di Frank Kafka, testo teatrale di Giuliano Brunazzi


A destra o sinistra, una via d’uscita, qualunque sia

di Vincenzo Carboni @ Teatro.persinsala.it (12.12.2015)

Recensione di 'Una relazione per un'accademia' di Frank Kafka, testo teatrale di Giuliano Brunazzi


A Roma è chiamato con dire dialettale il Nicchione del Laterano. È adiacente alla basilica in Piazza di Porta S. Giovanni. È conosciuto meglio però come Triclinium Leoninum ed è una ricostruzione dell’antico Triclinio del IX secolo d.C., realizzato da papa Leone III. Passeggiando sulla piazza, gli si getta un’occhiata superficiale, in quanto la maestosità della basilica attira meglio lo sguardo. Con mia sorpresa mi accorgo che il Teatro Sala Uno è praticamente appoggiato alla colonna decorativa, quasi nascosto alla sua sinistra. È qui che Kafka ha deciso di mostrarsi in questa sera di dicembre.
Trarre un testo teatrale da un racconto breve dev’essere stata impresa ardua, ma Kafka ha già ispirato operazioni di questo tipo, cosa che conferma quanto il praghese non abbia smesso di parlarci, sebbene la sua opera respinga didascaliche soluzioni. La parabola della scimmia catturata nella foresta – e poi astutamente divenuta una star del varietà per potersi liberare dalla propria gabbia di contenzione – può esporsi a essere trattata come la sofferta scelta di rinunciare alla propria felice natura animale per apprendere dal proprio carceriere tutti i subdoli trucchi del potere e poi poterli utilizzare a proprio vantaggio. Forse, però, le cose non stanno proprio in questi termini. Giuliano Brunazzi, autore e interprete della riduzione, torna più volte sulla questione posta della scimmia: si tratta di trovare una via d’uscita, a destra, a sinistra, sopra, sotto, non importa a quale prezzo.
La prima cosa da fare è smettere di essere scimmia, quindi tagliare ogni ponte alle proprie spalle, smettere di indulgere alla nostalgia di una libertà naturale e perduta, che forse non è mai esistita, nemmeno nella sua vita da primate. «È con intenzione che non dico libertà (scrive Kafka). Non alludo a questo grande sentimento della libertà in tutte le direzioni. Come scimmia forse la conoscevo, e ho incontrato uomini che ambiscono ad essa. Ma per quanto mi riguarda, non desideravo la libertà allora come non la desidero oggi».
Non ha senso fuggire via, cercando una vagheggiata libertà al di fuori, piuttosto si convince a cercare una linea di fuga dentro la propria alienazione, quindi dentro quella del proprio carceriere. La scimmia comincia con lo studiare l’uomo, lo osserva, comincia a imitarlo, e così facendo lo comprende nel suo mondo di essere estraniato, senza territorio; solo allora comincia a intuire che l’uomo stesso può essere la sua linea di fuga. Piuttosto che essere vittima di una potenza diabolica (divenire un terrorista o un martire), la scimmia cerca di mettere in comunicazione vittima e carnefice («Non era cattivo con me, capiva che entrambi lottavamo dalla stessa parte contro la natura di scimmia, e che a me toccava il compito più difficile») come fosse un unico territorio da cui sottrarsi e nella maniera più ingenuamente spettacolare agli occhi dell’uomo: divenire una star del Varietà.
Brunazzi illustra bene questa alleanza pressoché inconsapevole soprattutto da parte dell’uomo, assunto com’è nella sua posizione di maestro. Inserisce dei momenti di movimento mimico, interpretando allo stesso tempo il domatore che insegna e la scimmia che esegue sul filo schioccante di un’agile frusta. Gilles Deleuze e Felix Guattari in Kafka. Per una letteratura minore, scrivono: «La metamorfosi è come la congiunzione di due deterritorializzazioni, quella che l’uomo impone all’animale costringendolo a fuggire o sottomettendolo da una parte, ma anche dall’altra quella che l’animale propone all’uomo, indicandogli delle vie d’uscita o dei mezzi di fuga ai quali l’uomo non avrebbe mai pensato da solo».
Tanta è la congiunzione che il primo istruttore finì per diventare lui stesso simile a una scimmia e subito dovette ricoverarsi in clinica. Cosa perde la scimmia nell’operazione? Forse il godimento del corpo, ma tutto sommato non si tratta di una grave perdita, giacché basta imparare a masturbarsi in privato o a spassarsela alla maniera delle scimmie con la piccola scimpanzé che aspetta a casa. «Non si dica che non ne valeva la pena» conclude la scimmia.
Ma come guardare negli occhi di lei la follia dell’animale addestrato e confuso che lui stesso avrebbe potuto essere? L’illustre quadrumane piega le carte, la relazione è finita. La conferenza agli stimati accademici è pronunciata per dirsi fratelli – scimmie e uomini – nella comune necessità di trovare una via d’uscita, qualunque sia. Il poster del film Il pianeta delle scimmie in bella mostra sulla scena, lo conferma. Siamo tutti esseri alienati, sospesi sopra un baratro che rischia di ingoiare tutto, come di lì a poco accadrà ai contemporanei di Kafka, quando le potenze diaboliche faranno un solo boccone dell’uomo e della scimmia paleogenetica che lo ha preceduto. La guerra era solo a un colpo di tosse, a un tiro di pulce, a uno schiocco di frusta, a un farfuglio di scimmia. Non si possono non apprezzare operazioni ardite come questa di Giuliano Brunazzi, se si tratta di far ancora parlare un classico alle orecchie prensili di noi uomini del nuovo millennio.

8.12.15

Chiara Del Corona Parte II Ripensare Deleuze. A vent'anni dalla morte (1995-2015) @ Gabinetto Viessieux. 30 Novembre 2015


Chiara Del Corona
Parte II
Ripensare Deleuze #2 
A vent'anni dalla morte (1995-2015)
@ Gabinetto Viessieux. 30 Novembre 2015


Terminato il suggestivo e appassionato intervento (o testimonianza) di Organisti, è Sandro Palazzo a prender la parola. Il suo, afferma, sarà un Deleuze “un po’più autunnale”. Palazzo parte infatti da un testo deleuziano del ’92, “L’épuisé”, ovvero “L’esausto”, uno scritto su Beckett. Vi è una differenza, sostiene Deleuze, tra lo stanco e l’esausto. Lo stanco è colui che
non dispone più di nessuna possibilità (soggettiva): e non può quindi mettere in atto la minima possibilità (oggettiva). Ma questa possibilità permane, perché non si attua mai tutto il possibile, anzi lo produce man mano che si va attuando. Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto esaurisce tutto il possibile. Lo stanco non può più realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare” (G. Deleuze).
L’esausto dunque ha esaurito a priori tutte le possibilità, come se tutte le “categorie” fossero esaurite. Citando una frase di Beckett, Deleuze scrive:
L’insieme del possibile si confonde col niente di cui ogni cosa è una modificazione […] I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo. Hanno troppo a che fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere, […] perché hanno rinunciato a ogni bisogno, preferenza, significato.” Ma in questo esaurirsi di significati, valori, preferenze, scelte ciò che sembra essere è paradossalmente una pienezza dell’essere. Una pienezza divina dell’essere in cui tutto è pieno di essere ma non ci sono più possibilità. Tale è la condizione dell’esausto che si riflette perfettamente nei personaggi beckettiani che si collocano nel mondo “non come poli d’identità intenzionale
ma che proprio per questo sono capaci di creare qualcosa di diverso. Un’altra immagine può esser richiamata alla mente, ed è quella di Eraclito: “αιών (l’eterno, l’indeterminato) è un bambino che gioca e il mondo è il regno di un bambino”. Si apre quindi una contrapposizione tra questo stato di innocenza eterna, infantile, fanciullesca, tra questa pienezza d’essere, questo “spinozismo accanito” (come lo chiama Deleuze) e dall’altro lato un’immanenza assoluta dell’uomo che ha progetti, si dota di valori, si orienta nel mondo secondo una rete di significati, preferenze, scelte. Insomma tra una condizione di infanzia eterna, resa possibile proprio dall’esaursi di possibilità e valori e quello che potremmo chiamare nomos, una legge che ci obbliga a scegliere, a selezionare, a preferire. Il termine nomos infatti etimologicamente significa distinguer, discernere tra più possibilità.
In un altro testo deleuziano, “l’immanenza: una vita” , del 1995, si fa riferimento a un racconto di Dickens, “il nostro comune amico”. La storia parla di un uomo cattivo, malvagio, disprezzato dagli altri proprio per la sua negatività. Dopo alcune vicissitudini il protagonista si ammala ma sul punto di morire tutti coloro che lo avevano disprezzato cominciano a prendersi cura di lui, intravedendo persino una scintilla di bontà. Una volta guarito invece l’uomo tornerà malvagio come era stato fin sul punto di morte e torna ad essere malvoluto dalla comunità che si era presa cura di lui. Ciò su cui Deleuze si sofferma è proprio quella scintilla di bellezza, di bontà che può essere separata dal soggetto. Quella scintilla è solo vita. Vita e basta, vita in sé stessa. È la bellezza e la bontà della vita in sé e per sé, senza che neanche debba venire attribuita al suo proprietario, all’individuo. Quella vita brilla di luce propria, è pura, trasparente, non è più passabile di valori, distinzioni, è pura innocenza. Da qui si arriva allora, prosegue Palazzo, alla differenza, in Deleuze, tra una metafisica della trascendenza e una metafisica dell’immanenza. La metafisica della trascendenza si richiama a Platone. È stato lui ad aver costruito le idee, come fondamento della doxa. Nel mondo si scontrano diverse opinioni (chi è il buon politico, il buon cittadino, l’uomo giusto ecc..), e si tratta allora di selezionare tra doxai buone e vere e doxai cattive o false. Già di per sé comunque la doxa, l’opinione non è qualcosa di neutro, non è una semplice apparizione, ma qualcosa di costruito, è una “costruzione culturale”, diremmo oggi.
Essa infatti implica dei presupposti, come il fatto che debba esistere un soggetto di attribuzione, che ci sia qualcosa di stabile, di presente. È quindi qualcosa di già complesso e raffinato. Ad ogni modo, nella “lotta” tra doxai c’è bisogno di un criterio superiore e universale per poter discernere tra opinioni buone e opinioni cattive e questo criterio altro non è che l’idea. Un’opinione è buona se partecipa dell’idea, un giudizio è vero se si conforma al giudizio universale; un’opinione è buona allora, quando corrisponde ad un modello universale di cui è la copia. In questo sistema – modello universale o idea e sotto di esso l’ opinione che partecipa della verità dell’idea, del modello eterno e universale – non trova però posto quello che Deleuze chiama simulacro. Quest’ultimo infatti non è una copia perfetta, è ciò che sfugge di natura alla conformazione all’idea, sfugge al binomio modello eterno-copia. Il simulacro è fuori da questo sistema in cui la doxa buona per esser tale deve partecipare dell’idea, e in quanto fuori da esso è anche fuori dall’essere. È quella zona di realtà su cui incombe l’ombra minacciosa del nulla. È la materia, il divenire, il caos. La doxa (insieme di significati, preferenze, valori..quello che oggi chiameremmo buon senso o senso comune) per esistere ha bisogno dell’idea platonica; il simulacro (l’esistenza estetica, legata al sensibile, che non costruisce storie ma vive nell’attimo) è relegata fuori, nel non essere. È il ribelle che si svincola dalla legge del padre, che si sottrae al nomos.
Anche nella filosofia cristiana e nell’idealismo tedesco c’è sempre una zona rilegata nella contraddizione. Anche in Cartesio, laddove è la follia a risultare fuori dal cogito. In Kant questo ruolo “ribelle” è tenuto dal “libero gioco dell’immaginazione”; in Hegel nella natura le determinazioni spazio-temporali sono fuori dalla vita dello spirito; nella filosofia cristiana è ammessa solo l’esistenza morale, mentre quella estetica, legata al sensibile, alla corporeità, alla materia, è tagliata fuori, è da rigettare nella contraddizione. Ma la domanda è: è davvero possibile pensare una zona dell’essere minacciata dal non essere? E perché l’esistenza estetica (come la chiama Kierkegaard) è da respingere, da bollare come contraddittoria? Per Deleuze l’istituzione di una trascendenza, di un nomos che forma, edifica progetti, concetti, rete di valori, significati e scelte non è un’operazione della natura, bensì un’operazione che la filosofia attua per legittimare le pretese del senso comune, l’esigenza di un orizzonte veritativo che da questo provengono e per proporre un modello alternativo a quello “spinozismo accanito” di cui si parla nell’Esausto. Secondo la concezione spinoziana letta dal filosofo francese non esiste affatto un essere di primo grado di cui l’esistente sarebbe una copia il cui essere è tale solo per partecipazione dell’Essere di primo livello. Non c’è un uno plotiniano, un principio primo che per emanazione infonde gradualmente l’essere ai livelli successivi fino ad arrivare alla materia – che è non essere, nulla, caos, oscurità in quanto troppo distante nella scala che parte dall’uno e quindi impossibilitata a ricevere la luce dell’essere. Per Spinoza – e Deleuze – l’essere si deve dire allo stesso modo di tutto ciò che c’è. C’è una sorta di ripresa quasi parmenidea dell’univocità dell’essere. Siamo di nuovo nella pienezza d’essere, nell’innocenza eterna di cui si parlava prima.
Certo, con questo Deleuze non vuole eliminare il nomos, la legge, il giudizio, la formazione di idee e concetti, di significati orientativi, in quanto è e rimane un momento necessario della vita, ma vuole porre l’accento su quegli “interstizi”, su quegli attimi, quei frammenti fragili, quasi effimeri, eterei che si insinuano, come un battito d’ali, tra due regni del nomos: in un attimo “rivoluzionario”che compare tra due nomoi. Un attimo che ne scardina uno per poi porne un altro. Un esempio può essere quallo della rivoluzione francese, che ha distrutto un nomos e ne ha poi riproposto uno nuovo, un altro nomos, ma che quindi ha aperto, un breve orizzonte di possibilità. Si tratta di qualcosa di evanescente eppure incontaminato e in quanto tale richiama perciò alla figura del bambino da cui Palazzo è partito. ma se l’essere è tutto ciò che c’è, come si può dire che può nascere qualcosa di nuovo, che ancora non c’è senza cadere di nuovo in contraddizione? Si ha a che fare con l’impossibile: la novità, l’immagine, ha a che fare con l’infondato. Come scrisse Benjamin a proposito dei giacobini della rivoluzione francese “nuovi Giosuè, ai piedi di ogni torre, sparavano ai quadranti per fermare il giorno”, e dunque congelano quell’istante prima che scompaia. Ecco è un po’ questo l’impossibile cui accenna Deleuze, l’attimo che scardina il tempo e che per un attimo fa brillare la scintilla di una impossibilità, o di una possibilità impossibile, in quanto ancora non è. E quando poi e se si realizzerà sarà di nuovo un nomos
Ubaldo Fadini ci propone infine una lettura di Deleuze attraverso due testi di due autori un po’eccentrici e grandi amici del filosofo francese: Pierre Klossowski e René Schérer. Il testo del primo è del 1972, quindi siamo in un contesto storicamente determinato, dunque anche molto lontano dalla tradizione teorica, teoretica di ricostruzione e recupero del pensiero deleuziano. Sia Klossowski che Schérer sottolineano in particolare nel pensiero dell’amico, il valore dell’abbandono. “Ciò che viene abbandonato” – scrive Schérer nel suo testo pubblicato nel 98, dopo la morte di Deleuze – “ è il perno, l’asse compromesso che forma l’io egoista”. Siamo davanti a una sorta di confronto radicale, un vero corpo a corpo che sembra tenere e contenere la soggettività chiusa, irrigidita, ma proprio in quanto tale, da sottoporre a critica. Questo perno deve essere messo in questione, deve essere abbandonato appunto, per poter accedere a quelle forze, quei flussi di energia, di intensità, di passioni e desideri di cui parla Deleuze. In questo tema dell’abbandono è in gioco un’altra tematica molto cara a Deleuze, che è quella dell’impersonale. Se si guarda al testo di Klossowski, si vede come l’autore radicalizzi l’intenzione di fondo di Deleuze, l’intento deleuziano perché lo coglie nella liquidazione del principio di identità, per recuperare il valere/valore dello sviluppo dell’impersonale. C’è un attacco all’io egoista, fissato, chiuso, determinato in maniera avvilente, mortificante. Vi è in Klossowski una radicalizzazione del discorso deleuziano, una iperbolizzazione del progetto di “liquefazione del principio di identità”. Tale liquidazione significa operare una complicazione di una finzione essenziale (l’identità fissa, stabile, irrigidita del soggetto), che così viene messa in crisi. Tale operazione a sua volta significa complicare la stessa impresa docente, l’impresa dell’insegnamento, la pretesa dell’insegnamento.
Si arriva perciò a un elemento paradossale di cui Deleuze è ben consapevole: arrivare a mettere in dubbio la possibilità di dire qualcosa e soprattutto di insegnare qualcosa, di fare filosofia evidentemente contraddice ciò che Deleuze stesso fa anche affermando tale messa in discussione (un po’come il relativismo che nega l’esistenza di qualsiasi verità ma di fatto o afferma questa sua sentenza come vera, e dunque si contraddice o nega anche se stesso, ma quindi diviene a sua volta poco attendibile, o comunque se ne può fare tranquillamente a meno). Lo sforzo di Deleuze però va oltre questo apparente paradosso e lo supera, rendendolo, se si può dire, ancor più estremo e paradossale. Intraprende un’avventura che non è quella tradizionalmente attribuita al filosofo, è un’avventura che non sta in piedi,perché è quella dell’”insegnare l’ininisegnabile”. Insegnare ciò che non si può insegnare. Più parodossale di così si muore. Deleuze cerca di insegnare la filosofia contro la filosofia (forse anche per questo, pure chi non è addestrato al pensiero filosofico trova sempre qualcosa nell’opera deleuziana, qualcosa che non è strettamente filosofico ma che incessantemente lavora il pensiero filosofico rendendolo più aperto). Klossowski ci aiuta a portare avanti questo ragionamento affermando che Deleuze si smarca, si rende marginale, si pone ai bordi rispetto a tutto ciò che ha la pretesa di essere insegnabile, comunicabile, rispetto a qualsiasi insegnamento istituito o istituzionale. Se ad esempio guardiamo al quadro delle scienze umane (psicologia, antropologia, sociologia…), alla sua architettura teoretica, continua Klossowski, ci accorgiamo che per le scienze umane non esiste l’ininisegnabile, mentre per Deleuze esso si dà e nel suo darsi, nel suo porsi, articola una contestazione seria, dura, rispetto a qualsiasi architettura teorica che pretenda di contenere ogni avventura e figura dell’umano. Klossowski dice che l’ininisegnabile in Deleuze si dà, tanto che uno “spirito scaltro” come lui pensa lo stesso di insegnarlo. Anche qui siamo nel paradosso, ma se ci si pensa, tutta o quasi, l’impresa teorica di Deleuze è da comprendersi e leggere nell’articolazione di una logica del paradosso.
L’idea decisiva di Deleuze, – che appare particolarmente evidente nei testi degli anni ’70 e nei suoi lavori con Félix Guattari – è quella di attaccare una condizione istituzionale della ricerca, di ogni ricerca e impresa teorica o filosofica che esclude da sé ogni elemento che appare in insegnabile. In questo Deleuze appare come un combattente in filosofia, un pensatore di combattimento, ma non di guerra, non è un ribelle, ma un combattente, dice Fadini. Ogni impresa teorica, ben attrezzata, ben indirizzata, ben formalizzata si afferma sul principio che non si possa andare avanti senza il supporto di un ultimo livello di investigazione. La convinzione di fondo che regge qualsiasi tipo di ricerca ben istituita è quella di dire che al di là di quell’ultimo livello, piano investigativo si precipiterebbe nel caos, nell’insensato. Quell’ultimo livello deve perciò essere salvaguardato, conservato, dato che è ciò che tiene ferma la ricerca, che la fonda, la radica, è ciò che le permette di andare avanti. Senza di esso c’è la vertigine del caos. Il precipizio nell’infondato. Per mantenere fermo questo gradino, dice Deleuze, ciò che va tenuta ferma è la nozione antropomorfa di “integrità della persona”. Per il filosofo francese però è proprio tale nozione a dover esser messa in questione, per consentire all’ “insegnante” di sprofondare in quel caos che tanto teme ma che è caos relativo, agganciabile – d’altronde, scrive Deleuze, “che cosa sarebbe pensare se non misurarsi continuamente con il caos?”. La domanda allora che adesso si pone è la seguente: cosa sta sotto, cosa sub-giace alle stesse strutture che regolano qualsiasi discorso di ricerca, di investigazione? Cosa sta sotto le “sottostrutture” di ogni impresa teorica, sotto quell’ultimo livello oltre il quale non si può andare, pena lo sprofondare nel caos? Sotto le sottostrutture, sotto il livello ultimo che consente all’insegnamento di andare avanti, c’è qualcosa che si muove, dice Deleuze e che se si valorizzasse porterebbe a una sorta di disintegrazione, a una messa in discussione radicale dell’unità della persona.
Klossowski individua questo qualcosa che sta nel sottosuolo, nei sotterranei che soggiacciono alle sottostrutture come l’Integralità, ovvero una dimensione poco afferrabile, solo parzialmente percettibile e comprensibile. Quest’integralità è il rinvio o il recupero di quella “polimorfia sensibile” che Klossowski vede ben rappresentata da Sade (sul quale ha scritto diversi saggi), laddove acquisirebbe la veste di mostruosità o di insieme di perversioni. L’ininisegnabile diventa allora per Klossowski la dimensione del polimorfico, del metamorfico, del divenire pulsante che sgretola e sfalda l’unitarietà identitaria. Solo attraverso l’attacco all’indiscussa integrità della persona si arriva, secondo Deleuze (e Klossowski nella lettura che ne fornisce) a recuperare tutto quel proliferare di singolarità, quelel singolarità nomadi mai perfettamente individualizzabili, mai irrigidite in un’identità fissa, singolarità che sono appunto pre-individuali, che sono un fascio di intensità, di forze mai ingabbiabili. Un flusso metamorfico che rende la dimensione dei processi di soggettivazione estremamente mobile, plastica. Un tale attacco però, tende a precisare Deleuze, non è contro l’umano, ma anzi, mira a riconfigurare in maniera diversa la figura dell’umano e a scoprire ciò che la muove, ciò che la spinge al cambiamento, al divenire, al fluire incessante. Il discorso deleuziano è tutto giocato su una dinamica della simulazione che scuote l’identità, la demolisce per tirarne fuori le innumerevoli potenzialità, le energie che sempre la scavano e sempre la trasformano in altro da sé. Un’impresa teorica del genere che si pone in maniera critica nei confronti di tutte le altre imprese che si pretendono istituite non può che essere un’impresa fantascientifica, conclude Fadini, in quanto prende in considerazione mondi che sono altri rispetto a quelli di cui si occupano le altre imprese teoriche. Ma la fantascienza implica però proprio quel recupero vitale, vivifico della pienezza sempre in divenire dell’umano. Solo quando si rompe l’integrità e la fissità di un’identità mortificata e irrigidita, imprigionata e impoverita, si può accedere a quella “molteplicità di bagliori differenziali, come fuochi fatui che si riflettono da una facoltà all’altra, una virtuale scia di fuochi, senza mai avere l’omogeneità della luce naturale che caratterizza il senso comune” e ci si può lanciare “in un divenire […] sempre contemporaneo, difficilmente ingabbiabile nelle ragioni/regioni dell’io istituito, rigorosamente individuato, proprio perché si delinea in forma di un frammento anonimo infinito, che non cessa di fare scandalo”. (U. Fadini, Soggetti a rischio)

4.12.15

Chiara Del Corona Parte I Ripensare Deleuze #1 A vent'anni dalla morte (1995-2015) @ Gabinetto Viessieux. 30 Novembre 2015


Chiara Del Corona
Parte I
Ripensare Deleuze #1 
A vent'anni dalla morte (1995-2015)
@ Gabinetto Viessieux. 30 Novembre 2015

Continua il ciclo di appuntamenti filosofici al Gabinetto Viessieux, organizzata dall’Associazione Quinto Alto. Stavolta il protagonista della conferenza è stato Gilles Deleuze, a vent’anni dalla sua morte. Non a caso il titolo dell’incontro del 30 novembre era proprio “Ripensare Deleuze. A vent’anni dalla morte”.
Katia Rossi, moderatrice del dibattito, introduce la figura di questo affascinante ed eccentrico filosofo ricordando in particolare il volume di opere postume pubblicato a distanza di dieci anni dalla sua morte, curato da David Lapoujade, col titolo di “Les mouvements aberrants” (éditions de Minuit) e che raccoglie soprattutto una serie di lettere e interviste lasciate dal filosofo francese.


In una di queste interviste si dice che Deleuze non è ancora post, bensì neo. Questo significa che il suo pensiero è ancora molto attuale, così come lo è la lettura che ha dato di molti autori e filosofi (da Kant, a Bergson, a Hume, a Nietzsche, a Leibniz, o nell’ambito letterario, da Prost, a Kafka, a Beckett..). Katia aggiunge anche che spesso si riscontrano due diverse modalità di approccio a questo autore un po’controverso ma fortemente suggestivo, entrambe errate, a suo dire. Il suo pensiero in effetti è un pensiero tutt’ora molto vivo, vivente, ma spesso risulta semplificato, snaturato, utilizzato in modo un po’aleatorio, “sportivo”. Nella prima delle due modalità di approccio infatti, proprio considerando la varietà di ambiti di cui si è occupato Deleuze (dalla filosofia, alla letteratura, all’arte, alla pittura, al cinema..) molti artisti, appartenenti a svariate sfere (architettura, arti visive, cinematografiche, ecc.) si richiamano alle sue riflessioni, ma rischiando di renderle troppo “pop”. È vero che egli stesso si considerava un autore pop, e ciò è dimostrato anche dall’uso di neologismi, da lui inventati, di parole persino un po’ barbare, eccentriche, ma a volte proprio questo suo aspetto viene banalizzato o comunque utilizzato in maniera poco attenta e consapevole, perdendo forse la pregnanza e la rilevanza del suo pensiero. La seconda modalità invece annovera Deleuze tra i filosofi classici, viene studiato dall’Accademia come un classico e ne viene fatto un oggetto si sapere puramente teorico e accademico, snaturando però a sua volta il senso profondo del messaggio deleuziano, anche molto critico dei saperi istituiti e delle istituzioni in generale.
Terminata l’introduzione Rossi passa a presentare i relatori: James Organisti, Sandro Palazzo e Ubaldo Fadini.
Il primo ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia teoretica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è docente presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Bergamo e presso l’Università degli Studi di Bergamo. Tra le altre cose, ha scritto una monografia su Deleuze, intitolata: “Gilles Deleuze. Dall’estetica all’etica”, edita l’anno scorso.
Sandro Palazzo invece è dottore di ricerca presso l’Università di Bologna e ha pubblicato diversi articoli e saggi su Deleuze (con particolare attenzione al rapporto tra trascendenza e immanenza e alle riflessione deleuziane su Kant) oltre ad aver curato la traduzione delle lezioni deleuziane del 1978 su Kant (“Fuori dai cardini del tempo”, ed. Mimesis, 2004). Tra i suoi scritti, ricordiamo “Trascendentale e temporalità in Gilles Deleuze e l’eredità kantiana”, pubblicato nel 2013.
Infine, Ubaldo Fadini, che forse molti di noi conoscono, è professore associato di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Firenze e si occupa di Deleuze da almeno venti anni. È curatore di testi importanti del filosofo francese, quali “Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori”, “Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia” (contemporaneo all’uscita del noto “L’Anti-Edipo”, scritto anche questo a quattro mani con Félix Guattari) e “Istinti e istituzioni”, piccolo ma ricco testo di Deleuze. È inoltre autore di libri importanti, in cui la figura del filosofo è costantemente presente, come “Figure nel tempo. A partire da Deleuze/Bacon” (sull’analisi deleuziana dei quadri di Francis Bacon i cui corpi dipinti rendono plasticamente bene l’idea di “corpo senza organi” di matrice deleuziana) , “Deleuze plurale. Per un pensiero nomade” e “Divenire corpo. Soggetti, ecologie, micropolitiche”, un’indagine sul rapporto tra uomo e tecnica che parte e torna a Deleuze.
James Organisti premette che il suo intervento sarà una testimonianza, piuttosto che una commemorazione. Tra l’altro Deleuze stesso probabilmente avrebbe mal gradito una sua commemorazione. E non si tratta neanche di una lezione di filosofia, afferma Organisti, per quanto da una parte ciò sia inevitabile. Il docente preferisce “raccontarci” cosa abbia scoperto studiando Deleuze e quel che ha capito, quello che lo ha portato a riflettere. Durante l’intervento si percepisce infatti una nota di emotività, significativa del fatto che probabilmente, chiunque legga questo filosofo ne rimane affascinato, catturato, calamitato, e in qualche modo, ne esce persino trasformato, perché il suo pensiero va a toccare corde profonde dell’animo umano, decostruendo ogni senso comune, ogni concetto pre-costruito che di esso possiamo avere. La lettura di Deleuze è paragonabile a una sublime catastrofe, una totale rimessa in discussione di ciò che crediamo fissato, uno sfaldamento di certezze introiettate o “istituzionalizzate” e soprattutto una percezione quasi commovente di una vita in tutta la sua struggente ricchezza e pienezza, che scorre in ciascuno di noi, che ci percorre da capo a piedi, disfacendoci continuamente, me che nel suo disfarci ci esplode dentro come una cascata inesauribile e ci trasforma in qualcosa che non sapevamo nemmeno di poter essere o diventare, ci rende consapevoli di essere un infinito fascio di possibilità e potenzialità.
Deleuze ci tocca, la sua filosofia ci inchioda per un attimo alla parete ma come farfalle, pronte poi a spiccare il volo, una volta scardinato il chiodo che ci teneva incollati a quel muro. Organisti dice di aver scoperto Deleuze durante un corso monografico su Nietzsche. Tra i commenti nelle note compariva anche il nome del filosofo francese infatti, e andando a leggere, il docente di filosofia, scorge una lettura diversa e “anticonformista” rispetto alla tradizionale esegesi del pensiero nietzschiano. Nel suo testo Deleuze scorporava Nietzsche dal nichilismo, in esso si intravede un Nietzsche non nichilista, bensì paladino dell’affermazione. Da qui Organisti è passato poi a leggere altri mirabili testi dell’autore francese che non sono soltanto testi di storia della filosofia, ma già di teoria filosofica (in particolare quelli dedicati a Bergson, Hume, Kant..) o di teoria letteraria (quali quelli dedicati a Proust, a Kafka..). “All’interno di questi testi” – prosegue James – “mi sono accorto che vi era una proposta della concezione della differenza ontologica, che rendeva ragione di alcuni aspetti”. La differenza in Deleuze si afferma soprattutto come differenza tra il mondo che tutti noi viviamo, il mondo finito, dotato di qualità, attributi, limiti e determinatezze e un mondo diverso, aperto, infinito, indeterminato, che è quello della virtualità, del virtuale. Tale scoperta ci aiuta a comprendere che per noi uomini esiste una possibilità che viene ancor prima del possibile che progettiamo. Una possibilità prima del possibile stesso. Il virtuale è una molteplicità, una cassa di risonanza, un divenire continuo, una riserva inesauribile di possibilità che appunto viene prima del possibile progetto. È essa stessa ciò che rende possibile il mio progetto, ovvero il mio possibile. Questo è un concetto bellissimo, in quanto è l’idea da cui Deleuze parte per decostruire l’idea di un soggetto prefissato, di un soggetto preformato, chiuso, come può esserlo la sostanza cartesiana.
Per il filosofo francese invece il soggetto è un soggetto larvale, neonato, ma proprio per questo capace di accogliere e vivere pienamente la ricchezza infinita dell’essere e della vita. È anche un soggetto passivo, me non nel senso negativo della passività, ma in quello della ricezione, del farsi ricettacolo, accoglienza incolmabile di infinte possibilità e modalità di essere: passivo perché riceve, accoglie su di sé e dentro di sé la violenza della bellezza della vita che esplode, dell’intensità della vita che esso stesso è o che si riversa in lui. È un soggetto capace di intensità, di forze che lo percorrono, che lo attraversano, che lo lavorano dal di dentro e dal di fuori. È capace di passività feconda. La vita lo giustifica in modo ingiustificato, lo giustifica nell’ingiustificabilità della vita stessa, nella sua meravigliosa gratuità ingiustificata e priva di fondamento ben determinato. È un soggetto s-fondato, gratuito, ingiustificato appunto. In quanto soggetto larvale è un evento nella gratuità della vita, nella sua risonanza, nella sua molteplicità, nel suo incessante divenire metamorfico. In questo potrebbe apparire vicino a un pensatore post-moderno, ma di fatto non lo è, poiché il soggetto larvale non è un individuo, che guarda il proprio ombelico, concentrato sui propri bisogni e sulle proprie esigenze, ma è quel soggetto pre-individuale capace dell’intensità della vita in tutte le sue forme, in tutte le sue potenzialità, capace di ricevere questo enorme evento che è la vita stessa. In tale concezione si può sentire un’eco nietzschiana, in questa idea di soggetto da cui deriva quella dell’affermazione. Per Deleuze quest’ultima è infatti l’unico modo che l’uomo ha per restar fedele a quell’esplosione di vita che lo ha generato e che ha reso possibile l’intensità che egli stesso è. L’affermazione è l’unica possibilità pratica che egli ha di esprimere la vita in tutta la sua ricchezza e imprevedibilità. Prima ancora di iniziare a logicizzare e concettualizzare il mondo, a ridurlo a giudizi, c’è questa piena affermazione dell’evento che io stesso sono, un’affermazione che ricostituisce. La negazione in tal senso, non è che un vano tentativo di definire come un cesello l’impossibilità di ridurre ad un concetto la pienezza che sto vivendo.
Da qui emerge anche il tema, caro a Deleuze, della libertà: l’evento è come una pellicola inesprimibile, irriducibile e questo evento non è che l’accadere, l’insorgere di un’idea. L’idea è l’evento irriducibile, che si svincola dalla passione el’azione necessitante dei corpi, perché sempre apre a nuove possibilità. Quando si “accende” un’idea non c’è quindi più solo una necessità, ma una novità, una libertà innovativa. C’è possibilità di creazione, di invenzione, che liberano il soggetto, che liberano l’azione necessitante dei corpi. Oggi, che risulta tutto contabilizzato nella nostra cultura (persino in ambito universitario col calcolo dei crediti di esame), può dare molto ossigeno trovare un pensatore che ci dica che quando nasce un’idea nasce una possibilità di liberazione e la cultura dovrebbe essere precisamente questo, una scintilla di novità, di nuovo, di libertà e possibilità traboccanti. per questo occorre però diventare stranieri, anche e soprattutto nella propria lingua. Ognuno può diventare rivoluzionario all’interno della propria lingua e quindi della propria cultura se comincia a intonare ritornelli diversi, se comincia a balbettare, come direbbe Deleuze. Oggi che il linguaggio, i concetti, stanno diventando degli aridi e vuoti stereotipi privi di vita, con solo la volontà di colpire l’immaginario comune, è ancor più urgente creare nuovi ritornelli, farsi stranieri in ciò che consideriamo più nostro e fissato e quindi aprire nuove possibilità, lasciar brillare quella scintilla di novità che spazza via ciò che è dato per scontato, ciò che sembra essere stabilito una volta per tutte e operare quella rivoluzione, quello stravolgimento che solo può esprimere con parole diverse, con balbettii nuovi, l’inesauribile ricchezza della vita, del pensiero, dell’ evento, sempre traumatico, sempre catastrofico (ma in senso positivo), sempre spiazzante, che è l’idea, il meraviglioso accadere di un’idea nuova.