23.3.13

Antonio Gnoli: Ginevra Bompiani @ Repubblica 23 Dicembre 2012


Antonio Gnoli:
Ginevra Bompiani @ Repubblica, 23 dicembre 2012

Una casa editrice - nottetempo - che compie dieci anni; un padre importante: Valentino Bompiani, scomparso vent' anni fa; un compagno - Giorgio Agamben - con cui per anni ha condiviso passioni, interessi, amore; una decina di libri - tra saggistica e narrativa - tra cui, ricordo, Le specie del sonno (Quodilibet) che entusiasmò Italo Calvino e l' ultimo, appena pubblicato da Sellerio: La stazione termale, un lungo racconto su come un ambiente di agi e rilassatezza si possa trasformare in un luogo di sofferenza. Ginevra Bompiani è una donna che fa. Insegna letteratura inglese. Dirige nottetempo, dove insieme ai libri di successo di Milena Augus e Luciana Castellina, pubblica una saggistica raffinata, tra cui Giorgio Agamben e Alfonso Berardinelli. Vive a Roma in una bella casa ai margini di Trastevere. La incontro in una rarefatta mattina di dicembre. È una donna gentile. Premurosa. Preoccupata. Confessa, mentre prepara un caffè, di non possedere memoria. Mi viene di pensare che il distacco dal tempo libera da certe dipendenze: «Non è che non ricordi, ma è come se all' episodio rievocato non sappia mettere il cartellino con le date». A proposito di date nottetempo compie dieci anni. «Sì, la fondammo insieme a Roberta Einaudi e altri amici. Fu un gioco, una scommessa, poi un impegno». Lei aveva alle spalle l' esempio editoriale di suo padre, Valentino Bompiani. I confronti possono essere complicati, perfino impietosi. «Non sono mai facili. Tanto è vero che ho impiegato un bel po' a decidermi. Poi nel 1998 la Bompiani organizzò una celebrazione per mio padre che se fosse stato vivo avrebbe allora compiuto cento anni. Io e mia sorella siamo rimaste un po' defilate, come due spettatrici che ascoltavano le testimonianze degli altri. E questo ha fatto scattare in me una cosa insolita. Improvvisamente ho visto mio padre con occhio diverso. Più esterno. Senza sentirmene emotivamente coinvolta». Che ricordo ha di lui? «Un uomo intelligente e tosto. Grandissimo lettore. Un seduttivo dotato di una natura fortissima che usava in casa editrice. Sapeva mettere a frutto perfino i suoi difetti». E tra questi? «Beh, soprattutto in alcune circostanze, era collerico». Anche con lei? «Con me aveva maniere brusche. A un certo punto finito il liceo e dopo un anno all' estero, decise che non avrei fatto l' università, perché un lavoro c' era già in casa editrice. Cominciai così a correggere le voci del Dizionario. Poi passai all' ufficio estero. In quel periodo arrivò come redattore Umberto Eco. Si distingueva per la sua vasta cultura, per il modo agile con cui poteva passare da San Tommaso a Joyce. E io pensai: come farò un domani, ignorante come sono, a diventare il capo di questo qua? Mollai la casa editrice. E questa volta senza soldi, né protezione tornai a Parigi». Un atto di ribellione. «Non lo so. Certo un atto necessario per poter riprendere a pensare. Mi iscrissi all' università con l' intenzione di laurearmi in psicologia». Voleva fare l' analista? «Era un obiettivo possibile. Poi ci ho ripensato. Negli anni in cui sono stata in analisi compresi che non era il mestiere adatto». Perché? «Non volevo scambiare il mio posto con quello dell' analista. Preferivo, nonostante le dipendenze che l' analisi crea, la mia libertà alla sua». Di che libertà parla? «Libertà di parola, di espressione, di associare le idee. L' analista invece ha potere ma non ha libertà». Il potere ha vincoli che la libertà non conosce? «È auspicabile. Un potere libero rischia di essere arbitrario. La libertà è un concetto strano. Io ne appresi il senso assistendo a una bellissima lezione di Gilles Deleuze su Leibniz e la libertà appunto». Cosa le insegnò? «Ci spiegò che quello che sembrava il filosofo della monade e del determinismo era in realtà un grande filosofo della libertà. Ci disse: la libertà è una piccola frangia mobile che si crea attorno al determinismo. Sta a noi allargarla». Ha conosciuto Deleuze? «Molto bene negli ultimi anni della sua vita. La prima volta che lo incontrai fu a una cena a casa del mio amico Jean-Paul Manganaro che tra l' altro gli aveva fatto conoscere Carmelo Bene. Fu una serata meravigliosa, ci sentivamo tutti a nostro agio in una specie di armonia delle parole. Poi, al momento di andarsene, Deleuze si sentì male. Era già sul pianerottolo. Jean-Paul gli portò una sedia e lo vidi accasciarsi di spalle tentando di riprendere fiato». Deleuze scelse alla fine di suicidarsi. Come giudica quel gesto? «Si gettò dalla finestra del bagno. E se ripenso a quell' atto credo che lui l' abbia compiuto per almeno due ragioni. La prima è che l' amico François Châtelet soffriva della sua stessa malattia ai polmoni. Ne aveva visto il lento degenerare e infine la terribile dipendenza dalle macchine. Sapeva, lui che era stato operato di tracheotomia, cosa lo aspettava». E la seconda ragione? «Ricordo che una delle ultime volte in cui lo vidi mi disse che stava scrivendo un libro sul "virtuale", tanto che gli regalai alcuni romanzi di Philip Dick che lui non conosceva. Poi ci vedemmo un' ultima volta, poche settimane prima che si suicidasse. Gli chiesi del libro e mi rispose che non aveva trovato una forma da dargli. Lo disse con un tono di disperazione che mi morse il cuore». La scrittura è una forma di vita? «Lo è, sicuramente lo è per me». Cosa la lega al gesto della scrittura? «Più che un gesto è un movimento interiore. O, come disse Anna Maria Ortese, un modo per essere a casa». (leggi qui l'intero articolo di A.Gnoli/Read more)