7.9.13

Pietro Camarda: Recensione di Angelucci, Daniela, Deleuze e i concetti del cinema @ RE.F 7 settembre 2013



Angelucci, Daniela, Deleuze e i concetti del cinema
Recensione di Pietro Camarda @ Re.F. 7 settembre 2013- Read more

Il testo mette in relazione, secondo un percorso tematico imperniato sul rapporto cinema-filosofia, l’esposizione  delle idee filosofiche di Deleuze e la sua personale riflessione sul cinema, in grado di intrecciare una relazione inscindibile, una “coincidenza tra arte cinematografica e filosofia” (p. 7). Si viene così ad instaurare un rapporto di stretta parentela tra le due pratiche: la pratica cinematografica viene intesa come creazione di immagini, la filosofia corrisponde ad un’invenzione di concetti.
Nelle molteplici possibilità di rapporto tra cinema e filosofia, è proprio Deleuze che intorno alla prima metà degli anni Ottanta inaugura una nuova modalità di pensiero sul cinema con i volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. In questi veri e propri studi sul cinema, Deleuze, indagando nelle profondità di questa pratica fino a rintracciarne gli elementi primordiali, giunge a qualificare la materia come un’immagine, intesa come un’esistenza situata a metà strada tra una rappresentazione (idealismo) e una cosa (realismo). L’immagine e il movimento sono soltanto due dei concetti originari del cinema: è così che si comincia a notare la stretta relazione tra la pratica artistica, cinematografica, delle immagini, e quella concettuale, filosofica: questo lo si può notare ancor di più nell’intesa che Deleuze ha con le teorie di Bergson, filosofo preso come esempio per mostrare che il movimento (nel cinema) ha un proprio statuto ontologico (piano-sequenza), cioè un continuo, composto da sezioni mobili e non da segmentazioni che riportano un’immagine del o in movimento (Bergson), ma un’immagine-movimento.
Questa struttura rappresentativa, il legame tra immagine e movimento in una sola direzione senza soluzioni di continuità, ha come effetto il repentino cambiamento di tutto, cioè ha al suo interno le condizioni stesse del suo modificarsi. Ai margini della coincidenza tra immagine e movimento, si mostra il tempo, “la restituzione del tempo in un’immagine, novità sostanziale del cinema moderno” che sembrerebbe mettere in un rapporto di subordinazione il movimento al tempo, rovesciando la logica kantiana per cui il tempo è subordinato al movimento. Il tempo sembra poter condizionare il movimento, espresso nella formula di Amleto: “the time is out of joint”. Si crea così un punto di indecidibilità tra il reale e il virtuale, l’immagine-cristallo, cuore delle immagini ottiche e sonore: si tratta di una illusione oggettiva, frutto non di confusione soggettiva, ma di un rapporto per natura biunivoco tra reale e virtuale. Questa è la configurazione dell’immagine-cristallo, ma da dove viene? A crearla è il tempo, “che si scinde continuamente in passato che si conserva e presente che passa tendendo verso il futuro” (p. 27). L’immagine-cristallo mostra quindi contemporaneamente presente e passato, “la doppiezza, la virtualità che esiste fuori dalla soggettività e della coscienza, nel tempo” (p. 28). Il cinema “cristallino”, quindi, liberandosi dalla subordinazione al movimento e rivelando presenze illusorie, crea un luogo virtuale per una narrazione che va oltre la coppia oppositiva tra attuale e virtuale.
Il tempo, nel cinema, non solo crea immagini e quindi movimento, secondo l’impostazione deleuzeana, ma oltretutto si sdoppia continuamente, in presente e passato, sembra creare una detemporalizzazione del tempo tale per cui la memoria si struttura come “il differenziarsi attraverso la relazione” (p. 43): si tratta di un sistema fascicolato che si regge sulla serie di contrattempi dovuti a forze di relazione. Il cinema si modernizza quindi mostrando nuovi paradigmi tipici della modernità: innovazione tecnica, nuova percezione del soggetto, specchio della società contemporanea, e così via…ma niente come la potenza del falso qualifica il cinema moderno. Il nuovo sistema cinematografico è in continuo divenire, cambia senza sosta, in un continuo rinvio di se stesso dà vita a pluralità che è impossibile ricondurre ad unità, generando così uno stile né soggettivo né oggettivo, contaminato dice Deleuze, dove il giudizio, inteso in quanto valore di riappropriazione-riconoscimento, viene meno e fa posto all’affetto che spodesta l’ideale di verità e rilancia una serie di rapporti di forze senza centro. Deleuze (insieme a Bergson, Nietzsche – filosofi - e Welles – regista -), vede l’inganno, il falso, che diviene creazione del nuovo, e “l’artista è creatore di verità” (p. 72). È il falso che caratterizza il nuovo modo di fare cinema, in virtù di un oltrepassamento continuo delle posizioni precedenti e presenti, rispetto al tempo in prima battuta, ma anche rispetto alle immagini (o anche concetti). Siamo di fronte ad “una potenza che ci costringe a pensare” (p. 84), a partire dall’esperienza cinematografica e dalla sua relazione con la creazione di concetti, con la filosofia, di fronte a un cinema che mette l’uomo a confronto con l’impensabile. 
È in questo modo che si instaura e si può parlare di una logica della “ripetizione come elevazione a potenza, come sempre nuova affermazione di singolarità” (p. 87). Quella proposta da Deleuze per il cinema, consiste nel rilanciare e ripetere lo stesso: la descrizione dell’oggetto si sostituisce all’oggetto in sé; al posto di una trama verosimile compare una narrazione falsificante; si può notare così la differenza in opera, cioè al lavoro, come una dinamica che si ripete e crea molteplici rinvii. Il nuovo modo di fare cinema, quindi, mostra ciò che solitamente non si può vedere, un simulacro, come lo chiama Deleuze, cioè ciò che appare, in una vertigine senza fine che comprende differenza, ripetizione, sdoppiamento. “Il cinema, grazie alla sua genesi meccanica, si configura come un’impronta digitale del reale: sulla pellicola viene impressa una traccia in grado di aderire alla vita e di mostrare la vera natura delle cose e degli esseri umani” (p. 118). Ciò che viene mostrato nel e dal film non è una semplice riproduzione, ma l’oggetto stesso reso indipendente e libero, eterno, non come risultato di una tecnica, ma come lavoro in fieri. La pellicola diventa il materiale di supporto dell’intera rappresentazione, il foglio bianco di una scrittura che imprime un lavorio non solo tecnico, ma soprattutto vitale (in vita).        
Lo studio condotto dalla Angelucci si mostra come un' introduzione al pensiero del cinema di Deleuze ma, rimarcandone alcuni aspetti della riflessione filosofica, mette anche a fuoco indagini e letture di particolari autori e film significativi. Si tratta di una lettura parallela tra la riflessione sul cinema di Deleuze e l’arte cinematografica in sé, mettendo in luce i rapporti che sembrano regolare una concentrazione di affinità tra le due pratiche.