A destra o sinistra, una via d’uscita, qualunque sia
di Vincenzo Carboni @ Teatro.persinsala.it (12.12.2015)
Recensione di 'Una relazione per un'accademia' di Frank Kafka, testo teatrale di Giuliano Brunazzi
A Roma è chiamato con dire dialettale il Nicchione del Laterano. È adiacente alla basilica in Piazza di Porta S. Giovanni. È conosciuto meglio però come Triclinium Leoninum ed è una ricostruzione dell’antico Triclinio del IX secolo d.C., realizzato da papa Leone III. Passeggiando sulla piazza, gli si getta un’occhiata superficiale, in quanto la maestosità della basilica attira meglio lo sguardo. Con mia sorpresa mi accorgo che il Teatro Sala Uno è praticamente appoggiato alla colonna decorativa, quasi nascosto alla sua sinistra. È qui che Kafka ha deciso di mostrarsi in questa sera di dicembre.
Trarre un testo teatrale da un racconto breve dev’essere stata impresa ardua, ma Kafka ha già ispirato operazioni di questo tipo, cosa che conferma quanto il praghese non abbia smesso di parlarci, sebbene la sua opera respinga didascaliche soluzioni. La parabola della scimmia catturata nella foresta – e poi astutamente divenuta una star del varietà per potersi liberare dalla propria gabbia di contenzione – può esporsi a essere trattata come la sofferta scelta di rinunciare alla propria felice natura animale per apprendere dal proprio carceriere tutti i subdoli trucchi del potere e poi poterli utilizzare a proprio vantaggio. Forse, però, le cose non stanno proprio in questi termini. Giuliano Brunazzi, autore e interprete della riduzione, torna più volte sulla questione posta della scimmia: si tratta di trovare una via d’uscita, a destra, a sinistra, sopra, sotto, non importa a quale prezzo.
La prima cosa da fare è smettere di essere scimmia, quindi tagliare ogni ponte alle proprie spalle, smettere di indulgere alla nostalgia di una libertà naturale e perduta, che forse non è mai esistita, nemmeno nella sua vita da primate. «È con intenzione che non dico libertà (scrive Kafka). Non alludo a questo grande sentimento della libertà in tutte le direzioni. Come scimmia forse la conoscevo, e ho incontrato uomini che ambiscono ad essa. Ma per quanto mi riguarda, non desideravo la libertà allora come non la desidero oggi».
Non ha senso fuggire via, cercando una vagheggiata libertà al di fuori, piuttosto si convince a cercare una linea di fuga dentro la propria alienazione, quindi dentro quella del proprio carceriere. La scimmia comincia con lo studiare l’uomo, lo osserva, comincia a imitarlo, e così facendo lo comprende nel suo mondo di essere estraniato, senza territorio; solo allora comincia a intuire che l’uomo stesso può essere la sua linea di fuga. Piuttosto che essere vittima di una potenza diabolica (divenire un terrorista o un martire), la scimmia cerca di mettere in comunicazione vittima e carnefice («Non era cattivo con me, capiva che entrambi lottavamo dalla stessa parte contro la natura di scimmia, e che a me toccava il compito più difficile») come fosse un unico territorio da cui sottrarsi e nella maniera più ingenuamente spettacolare agli occhi dell’uomo: divenire una star del Varietà.
Brunazzi illustra bene questa alleanza pressoché inconsapevole soprattutto da parte dell’uomo, assunto com’è nella sua posizione di maestro. Inserisce dei momenti di movimento mimico, interpretando allo stesso tempo il domatore che insegna e la scimmia che esegue sul filo schioccante di un’agile frusta. Gilles Deleuze e Felix Guattari in Kafka. Per una letteratura minore, scrivono: «La metamorfosi è come la congiunzione di due deterritorializzazioni, quella che l’uomo impone all’animale costringendolo a fuggire o sottomettendolo da una parte, ma anche dall’altra quella che l’animale propone all’uomo, indicandogli delle vie d’uscita o dei mezzi di fuga ai quali l’uomo non avrebbe mai pensato da solo».
Tanta è la congiunzione che il primo istruttore finì per diventare lui stesso simile a una scimmia e subito dovette ricoverarsi in clinica. Cosa perde la scimmia nell’operazione? Forse il godimento del corpo, ma tutto sommato non si tratta di una grave perdita, giacché basta imparare a masturbarsi in privato o a spassarsela alla maniera delle scimmie con la piccola scimpanzé che aspetta a casa. «Non si dica che non ne valeva la pena» conclude la scimmia.
Ma come guardare negli occhi di lei la follia dell’animale addestrato e confuso che lui stesso avrebbe potuto essere? L’illustre quadrumane piega le carte, la relazione è finita. La conferenza agli stimati accademici è pronunciata per dirsi fratelli – scimmie e uomini – nella comune necessità di trovare una via d’uscita, qualunque sia. Il poster del film Il pianeta delle scimmie in bella mostra sulla scena, lo conferma. Siamo tutti esseri alienati, sospesi sopra un baratro che rischia di ingoiare tutto, come di lì a poco accadrà ai contemporanei di Kafka, quando le potenze diaboliche faranno un solo boccone dell’uomo e della scimmia paleogenetica che lo ha preceduto. La guerra era solo a un colpo di tosse, a un tiro di pulce, a uno schiocco di frusta, a un farfuglio di scimmia. Non si possono non apprezzare operazioni ardite come questa di Giuliano Brunazzi, se si tratta di far ancora parlare un classico alle orecchie prensili di noi uomini del nuovo millennio.