Questo studio non è una storia del cinema. È una tassonomia, un tentativo di classificazione delle immagini e dei segni. Ma questo primo volume deve accontentarsi di determinare gli elementi, e soprattutto gli elementi di una sola parte della classificazione. Faremo spesso riferimento al logico americano Peirce (1839-1914), perché ha stabilito una classificazione generale delle immagini e dei segni che è indubbiamente la piú completa e la piú varia. È come una classificazione di Linneo in storia naturale o, meglio, una tavola di Mendeleev in chimica. Il cinema impone nuovi punti di vista su questo problema.
Un altro confronto si impone con pari forza. Nel 1896 Bergson scriveva Materia e memoria: era la diagnosi di una crisi della psicologia. Non si potevano piú opporre il movimento come realtà fisica nel mondo esterno e l’immagine come realtà psichica nella coscienza. La scoperta bergsoniana di un’immagine-movimento, e piú profondamente di un’immagine-tempo, conserva ancora oggi una tale ricchezza che forse non se ne sono tratte tutte le conseguenze. Malgrado la critica troppo sommaria che Bergson farà un po’ piú tardi del cinema, niente può impedire la congiunzione dell’immagine-movimento, quale egli la considera, e dell’immagine cinematografica.
In questa prima parte tratteremo dell’immagine-movimento e delle sue varietà. L’immagine-tempo sarà l’oggetto di una seconda parte. Ci è sembrato che i grandi autori di cinema avrebbero potuto essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a pensatori. Essi, invece di pensare per concetti, pensano per immagini-movimento e immagini-tempo. La grande abbondanza di inconsistenza nella produzione cinematografica non rappresenta un’obiezione: essa non è peggiore che altrove, benché abbia conseguenze economiche e industriali non confrontabili. I grandi autori di cinema sono dunque soltanto piú vulnerabili, ed è infinitamente piú facile impedirgli di realizzare la loro opera. La storia del cinema è un lungo martirologio. Ciononostante il cinema fa parte della storia dell’arte e del pensiero, sotto le forme autonome insostituibili che questi autori hanno saputo inventare e, malgrado tutto, imporre. Non offriamo alcuna riproduzione che illustri il nostro testo, perché proprio il nostro testo vorrebbe essere un’illustrazione di grandi film di cui ognuno di noi serba piú o meno il ricordo, l’emozione o la percezione.
Un altro confronto si impone con pari forza. Nel 1896 Bergson scriveva Materia e memoria: era la diagnosi di una crisi della psicologia. Non si potevano piú opporre il movimento come realtà fisica nel mondo esterno e l’immagine come realtà psichica nella coscienza. La scoperta bergsoniana di un’immagine-movimento, e piú profondamente di un’immagine-tempo, conserva ancora oggi una tale ricchezza che forse non se ne sono tratte tutte le conseguenze. Malgrado la critica troppo sommaria che Bergson farà un po’ piú tardi del cinema, niente può impedire la congiunzione dell’immagine-movimento, quale egli la considera, e dell’immagine cinematografica.
In questa prima parte tratteremo dell’immagine-movimento e delle sue varietà. L’immagine-tempo sarà l’oggetto di una seconda parte. Ci è sembrato che i grandi autori di cinema avrebbero potuto essere paragonati non soltanto a pittori, architetti, musicisti, ma anche a pensatori. Essi, invece di pensare per concetti, pensano per immagini-movimento e immagini-tempo. La grande abbondanza di inconsistenza nella produzione cinematografica non rappresenta un’obiezione: essa non è peggiore che altrove, benché abbia conseguenze economiche e industriali non confrontabili. I grandi autori di cinema sono dunque soltanto piú vulnerabili, ed è infinitamente piú facile impedirgli di realizzare la loro opera. La storia del cinema è un lungo martirologio. Ciononostante il cinema fa parte della storia dell’arte e del pensiero, sotto le forme autonome insostituibili che questi autori hanno saputo inventare e, malgrado tutto, imporre. Non offriamo alcuna riproduzione che illustri il nostro testo, perché proprio il nostro testo vorrebbe essere un’illustrazione di grandi film di cui ognuno di noi serba piú o meno il ricordo, l’emozione o la percezione.
Dalla Premessa al volume
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«Un libro di filosofia deve essere da un lato una specie particolarissima di romanzo poliziesco, dall’altro una sorta di fantascienza […]. Si avvicina il tempo in cui non sarà più possibile scrivere un libro di filosofia come se ne scrivono da un bel pezzo [...]. La ricerca di nuovi mezzi di espressione fu instaurata da Nietzsche, e deve essere oggi proseguita in relazione con il rinnovamento di altre arti, quali il teatro o il cinema».
Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione
«C’è dunque questo libro unico, portatore di un gesto unico: Deleuze, un bel giorno, dopo aver visto molti film nella sua vita di filosofo, si decide a prendere in braccio il corpo del cinema, quasi un secolo di cinema, per tentare di dirne qualcosa, non solo perché avrebbe a sua volta, come altri, delle idee sul cinema, ma per riconsiderare a modo suo il campo del cinema. Questo presuppone uno sforzo straordinario e molto particolare, che intavoli sul vivo la questione del rapporto tra la filosofia e il cinema. Da una parte c’è la filosofia, molte volte definita da Deleuze come un'invenzione di concetti. Dall’altra c’è il cinema, che si tratta di pensare nella misura in cui già il cinema pensa, non solo grazie alla riflessività su se stesso di cui ha dato tanta prova, ma in quanto il cinema, come ogni arte, pensa di per sé attraverso i film dei grandi cineasti.
[…]
La cosa stupefacente, emozionante di questo libro sta perciò nel provare a qual punto si è continuamente presi nella tassonomia, poiché i concetti si ordinano e progrediscono gli uni in rapporto agli altri, ma in proporzione al fatto che ogni concetto è immediatamente incarnato in un nome, nei corpi, in un’opera, in un corpo di opere o di epoche. L’immagine-pulsione, per seguire quest’esempio, mette dunque in gioco prima Stroheim, poi Buñuel, poi Losey, tutti e tre definiti con posizioni minuziosamente concatenate in un sistema rigido e aperto, simile a un colpo di dadi lanciato ogni volta in quella maniera strutturalista deviata e rivitalizzata, che costituisce il nucleo del pensiero di Deleuze e che diventa lo strumento dell’energia che lo alimenta. Un’altra cosa colpisce e sorregge la lettura: in questa storia nessun cineasta è mai oggetto di alcun giudizio di valore, se non quello che esce dalla classificazione e dalla genealogia».
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La cosa stupefacente, emozionante di questo libro sta perciò nel provare a qual punto si è continuamente presi nella tassonomia, poiché i concetti si ordinano e progrediscono gli uni in rapporto agli altri, ma in proporzione al fatto che ogni concetto è immediatamente incarnato in un nome, nei corpi, in un’opera, in un corpo di opere o di epoche. L’immagine-pulsione, per seguire quest’esempio, mette dunque in gioco prima Stroheim, poi Buñuel, poi Losey, tutti e tre definiti con posizioni minuziosamente concatenate in un sistema rigido e aperto, simile a un colpo di dadi lanciato ogni volta in quella maniera strutturalista deviata e rivitalizzata, che costituisce il nucleo del pensiero di Deleuze e che diventa lo strumento dell’energia che lo alimenta. Un’altra cosa colpisce e sorregge la lettura: in questa storia nessun cineasta è mai oggetto di alcun giudizio di valore, se non quello che esce dalla classificazione e dalla genealogia».
Raymond Bellour, Pensare, raccontare. Il cinema di Gilles Deleuze
[trad. it. di Raoul Kirchmayr, comparsa in «aut aut», 276/1996].
[trad. it. di Raoul Kirchmayr, comparsa in «aut aut», 276/1996].
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«Da un polo all’altro, lo spettatore di cinema trova infine qui, nel libro, ciò che provava là, seduto nella sala buia. Prova ciò che non può essere saputo quando si legge la sceneggiatura, né quando si parla del film, ancor meno quando si guarda un fotogramma, ma che viveva nell’immagine e nel tempo di quel momento. Ritrova dunque nel libro ciò che del cinema ogni film implica. Tale è la polarità dalla sala al libro. Ma, secondo la topologia del ripiegamento, lo spettatore nel libro apprende filosoficamente l’immagine e il tempo della vita, di cui la sala gli ha solo offerto l’esperienza».
François Regnault, La vie philosophique, «Magazine littéraire», 257, 1988.