compito del pensiero, ha detto una volta Michel Foucault, è rendere difficili i gesti troppo facili. Compito tanto più complicato e drammatico quando si ha a che fare con le cose che, a loro volta, sono le più difficili. E occuparsi della follia è di certo una di quelle, forse la più difficile di tutte. Il lavoro instancabile compiuto da Foucault nella forma del dissodamento e della ricostruzione delle modulazioni molteplici, variabili, eterogenee, della complicata trama di discorsi e di pratiche a partire da cui gli uomini si sono curati della follia – anche se in genere di quella degli altri – può essere ricondotto, forse persino ridotto, al tentativo di rompere le evidenze accecanti e le certezze troppo sicure di sé affinché gesti appunto troppo facili – internare un uomo, soffocarne o sequestrarne la parola, sospenderne i diritti, somministrargli un farmaco, fissarne l’identità, poco importa se definita come patologica – ritornino a essere difficili. Tutte le conoscenze che sull’enigma della follia si sono costruite, tutti i saperi che sul tentativo di ridurre, se non di abolire, il rapporto “tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte” si sono formati, tutti i discorsi che sullo sforzo di rischiarare, se non di cancellare, l’oscura appartenenza dell’uomo alla sragione, si sono edificati, prima e più radicalmente di quanto essi fossero già in grado di fare da soli, Foucault li ha costretti a interrogarsi su di sé – ovvero a compiere quell’esercizio critico, e autocritico, che rappresenta, da almeno due secoli a questa parte, ciò che è più proprio della riflessività e della coscienza di sé di una modernità che si è venuta sviluppando contemporaneamente alla costituzione di un sapere psicologico e psicopatologico. (...)
(cfr. Aut Aut n. 351, pg. 71-72)