2.3.12

Due simpatici italiani, fuori dal conforme, a colloquio nel 1979: Dalla e Bocca



Erano gli anni dei grandi concerti negli stadi. Lucio era un idolo di tutte le generazioni, ma soprattutto dei ragazzi. I suoi dischi, all'epoca ancora in vinile, erano in testa a tutte le classifiche. L'Espresso si chiese le ragioni di questo straordinario fenomeno culturale, sociale, e anche politico. E chiese al grande Giorgio Bocca di andare a intervistarlo. Ne uscì (29 luglio 1979) un "dialogo ai ferri corti e a viso aperto". che vi riproponiamo qui di seguito:


Lucio Dalla, il cantautore, piace ai bambini; già è personaggio da 'Corriere dei Piccoli', somiglia a Bibò o al capitan Cocoricò, piccolo misterioso bonario. Lucio Dalla piace anche agli anziani che hanno fatto il liceo: è il dio Efesto, peloso, fuliginoso, gradevolmente deforme, si muove rapido fra le grandi macchine che ha creato, gli scatoloni magici da cui escono le voci: «e dentro il grande fabbro vi infuse la sua musica».

Lucio Dalla piace anche a coloro che da sempre hanno avuto paura e desiderio del diverso e ora vedono in lui lo scandalo premiato dal successo, quello che fa una canzone su come si masturba e gliela fanno cantare anche al festival dell'Unità.

Lucio Dalla piacerebbe anche a me che lo intervisto all'una di notte, in un ristorante adriatico di Pescara, maccheroncini al pesce, automobili stipate su tre file, l'orrenda festosa città Luna Park che ti fa ritornare nell'Italia caotica e speranzosa del boom; dico piacerebbe anche a me se non fosse elettrico e retrattile come un gatto durante il temporale, impaziente di farmi sapere subito, in due minuti, come è e il contrario di come è, semplice? no, sofisticato; sofisticato? no, semplice; amico? sì, ma con il sottinteso che per lui puoi anche essere uno stronzo. Gradito? Sì molto, ma non dimentico, lui di antiche ferite narcisistiche.

«Te ne ricordi, Bocca, quando ti ho telefonato da Bologna? No? Ma sì, ti ricordi benissimo. Ti ho detto: vorrei incontrarti, parlarti. E tu mi hai risposto freddo: passi al giornale». 



Forse ti ho scambiato per un rompiballe della contestazione. E invece ho saputo poi che hai rifiutato di farti coinvolgere in quella rivoluzione che dava l'assalto al Cantunzein - petti di pollo alla petroniana - invece che al Palazzo d'inverno. Come è andata esattamente?
«A quel tempo lavoravo ancora con il poeta Roversi. Avevamo fatto assieme cose per me straordinarie, ma la gente non le gradiva. Vincevamo i premi della critica e non vendevamo dischi. Roversi è bravo ma per lui fare le canzoni con me era il secondo o il terzo lavoro, non ha mai messo piede in sala di registrazione».

Sì, ma cosa c'entrano questi fatti professionali con i moti di Bologna?
«Voglio dire che per Roversi fare canzoni non era il lavoro, il tuo lavoro, quello per cui vivi; era una delle molte cose in cui voleva entrare. Lui è di quelli che partecipano a tutto. Quando ci furono i fatti di Bologna voleva che facessimo subito due canzoni e che andassi a cantarle assieme a Guattari e ai nouveaux philosophes. Io invece mi chiusi in casa».

Ma come? Tu che canti con la folla, che ami la folla, succede un gran casino e ti chiudi in casa?
«Il mio rapporto con la folla attraverso la canzone è un rapporto di comunicazione e di partecipazione. E invece quella folla bolognese mi risultava incomprensibile. Incontravo gli amici del biliardo e dei tortellini ed erano improvvisamente diventati rivoluzionari, mentre quelli che avevano parlato per anni di rivoluzione si defilavano. C'erano troppe cose che non capivo». (....)



Leggi l'intervista completa su L'Espresso