Il debito è il motore economico e soggettivo dell’economia contemporanea: cuore strategico, fin dall’inizio, delle politiche neoliberiste, basate ieri sulla formazione e oggi sulla riparazione di enormi deficit pubblici; cuore pulsante delle politiche di costruzione della soggettività, basate ieri sull’etica del consumo e del godimento, oggi sull’etica del sacrificio e della colpa. L’uomo indebitato, esito rovesciato dell’ «imprenditore di se stesso» protagonista delle retoriche degli anni Ottanta e Novanta, è l’abitatore delle società contemporanee: prodotto del neoliberismo e suo potenziale affossatore, purché sia capace di decifrarne e contestarne non solo le politiche economiche ma anche e in primo luogo le ingiunzioni morali. Economia e etica infatti si toccano, e il soggetto antagonista non nasce solo dalle contraddizioni oggettive ma da un lavoro su di sé alternativo all’autodisciplinamento che l’etica del debito pretende di imporci. E’ il nocciolo teorico e politico de La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato, uscito in Francia pochi mesi fa, già diventato libro-cult del pensiero critico militante (ne parlò Christian Marazzi in una intervista sul manifesto del 3 dicembre scorso) e oggi in uscita in traduzione italiana per Deriveapprodi: radiografia e genealogia del debito fra teoria e pratica politica, fra riletture di Marx, Nietzsche, Foucault, Deleuze-Guattari e decodifica puntuale dei numeri che ci vengono somministrati come verità assolute per legittimare le politiche recessive e depressive di macelleria sociale.
"Economia del debito» è il nome, sostieni, del capitalismo contemporaneo: è di questo, non di «finanza», che bisogna parlare. Perché?
Perché dietro l’uso del termine «finanza» agisce ancora l’idea di una divisione fra economia «reale» ed economia finanziaria, fra profitto e rendita, che oggi è completamente superata. Nel capitalismo finanziario, Marazzi ce l’ha spiegato per tempo, la logica della finanza comanda l’insieme dei rapporti sociali: riorganizza l’impresa, agisce sul fisco riducendo le tasse per i ricchi, smantella il welfare sostituendo i crediti ai diritti. La cosiddetta economia reale è solo un pezzo del sistema di valorizzazione dominato dalla finanza. E la finanza non è un eccesso di speculazione riducibile con delle buone regole: è una relazione di potere fra proprietari e non proprietari, fra creditori e debitori. L’interesse è la finanza dal punto di vista dei creditori, il debito è la finanza dal punto di vista dei debitori. Dunque, dicendo «economia del debito» è subito chiaro di che si tratta e qual è la posta in gioco politica: si tratta del debito che greci, gli irlandesi, i portoghesi, gli islandesi non vogliono pagare, che legittima l’aumento delle tasse universitarie in Inghilterra scatenando i riots di Londra, che giustifica la controriforma delle pensioni in Francia e in Italia e i tagli ai servizi sociali e all’istruzione ovunque.
●Quali sono i pilastri di quresta
economia del debito, e come si è
sviluppata?
Il neoliberismo si è articolato sulla logica del debito fin dal «colpo del ’79» che rese possibile la formazione di enormi deficit pubblici e la conseguente riorganizzazione dei mercati finanziari. Poi, durante gli anni 80 e 90, c’è stata la progressiva sostituzione del salario con il credito: non aumenti di salario ma carte di credito, non la casa ma il mutuo, non il diritto all’istruzione ma i crediti scolastici (e contemporaneamente, l’individualizzazione delle politiche sociali e la privatizzazione della sicurezza sociale). Pareva la promessa di un futuro da ricchi per tutti, invece, con la crisi, questa massa di crediti si è rivelata per quello che è, una massa di debiti. La promessa del neoliberismo si è infranta, ma nel frattempo ha radicalmente trasformato il terreno dello scontro, perché non era pura ideologia, bensì una forma di governamentalità organica al flusso deterritorializzato e trasversale della produzione postfordista. Il debito non fa differenza fra salariati e non salariati, lavoro dipendente e lavoro autonomo, lavoro manuale e lavoro cognitivo, proletari e marginali, attivi e pensionati: siamo tutti indebitati. Il neoliberismo governa attraverso una molteplicità di rapporti di potere: capitale-lavoro, welfare-utente, consumatore-impresa, ma quello creditore-debitore è un rapporto di potere universale, riguarda tutta la popolazione attuale, e anche le generazioni future.
Il neoliberismo si è articolato sulla logica del debito fin dal «colpo del ’79» che rese possibile la formazione di enormi deficit pubblici e la conseguente riorganizzazione dei mercati finanziari. Poi, durante gli anni 80 e 90, c’è stata la progressiva sostituzione del salario con il credito: non aumenti di salario ma carte di credito, non la casa ma il mutuo, non il diritto all’istruzione ma i crediti scolastici (e contemporaneamente, l’individualizzazione delle politiche sociali e la privatizzazione della sicurezza sociale). Pareva la promessa di un futuro da ricchi per tutti, invece, con la crisi, questa massa di crediti si è rivelata per quello che è, una massa di debiti. La promessa del neoliberismo si è infranta, ma nel frattempo ha radicalmente trasformato il terreno dello scontro, perché non era pura ideologia, bensì una forma di governamentalità organica al flusso deterritorializzato e trasversale della produzione postfordista. Il debito non fa differenza fra salariati e non salariati, lavoro dipendente e lavoro autonomo, lavoro manuale e lavoro cognitivo, proletari e marginali, attivi e pensionati: siamo tutti indebitati. Il neoliberismo governa attraverso una molteplicità di rapporti di potere: capitale-lavoro, welfare-utente, consumatore-impresa, ma quello creditore-debitore è un rapporto di potere universale, riguarda tutta la popolazione attuale, e anche le generazioni future.
●Universalizzando il rapporto
creditore-debitore, tu sostieni, il
neoliberismo porta a galla il
fondamento del legame sociale,
che non sta nello scambio ma
appunto nel debito, in una
obbligazione – altri, penso a
Roberto Esposito, direbbero in un
«munus» - che lega l’uno all’altro
i membri della comunità.
E’ una linea di pensiero rintracciabile anche in un certo Marx ma che va soprattutto da Nietzsche a Deleuze e Guattari ad alcuni antropologi di oggi: la relazione, economica e simbolica, del debito fra diseguali anticipa la relazione dello scambio fra eguali. Del resto, prima dello scambio c’è la moneta, e la moneta è per sua essenza debito. Con la sostanziale differenza che dall’indebitamento originario verso la comunità, gli dei, gli antenati, oggi siamo passati all’indebitamento verso il dio unico che si chiama Capitale.
Si va ovunque verso un impoverimento di strati sempre più vasti della popolazione, e verso una sorta di pieno impego precario, in cui tutti lavorano, tre o quindici ore alla settimana, senza sicurezza, senza reddito, senza diritti e senza futuro. Mentre i ricchi fanno secessione: non pagano più le tasse, si dissociano dal patto sociale. La prima cosa da fare in una situazione del genere è superare la distinzione fra lotta sindacale e lotta politica: il sindacato non può più essere sindacato di categoria. Se quella del debito è una politica di unificazione sociale anti-politica – tutti debitori, al di là della collocazione nel sistema produttivo, e tutti disciplinati dalla morale dei sacrifici - il sindacato deve politicizzare questo sociale unificato al di là dei confini fordisti, connettere le figure dello sfruttamento al di là delle divisioni fra occupati e disoccupati, attivi e inattivi, produttivi e assistiti, precari e garantiti. La figura dell’uomo indebitato è trasversale, richiede nuove forme di solidarietà e cooperazione, nuove modalità di lotta che abbiano la stessa efficacia dello sciopero nella società industriale, e la reinvenzione di una «democrazia» capace di riconfigurare e reintegrare il politico, il sociale e l’economico. Ma tutto questo servirebbe a poco senza una conversione soggettiva, senza un rifiuto della morale del debito e dell’ordine del discorso in cui ci imprigiona. La mossa è in primo luogo simbolica: liberarsi da sensi di colpa, cattiva coscienza, oneri di giustificazione; rifiutarsi di pagare il debito perché il debito, prima che un problema economico, è un dispositivo di potere che ci tiene incatenati al Grande Creditore. Porgendoci queste catene come un destino ineluttabile, e tenendo sotto controllo non solo il nostro presente ma anche il nostro futuro, il nostro tempo e il tempo delle generazioni che verranno.
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E’ una linea di pensiero rintracciabile anche in un certo Marx ma che va soprattutto da Nietzsche a Deleuze e Guattari ad alcuni antropologi di oggi: la relazione, economica e simbolica, del debito fra diseguali anticipa la relazione dello scambio fra eguali. Del resto, prima dello scambio c’è la moneta, e la moneta è per sua essenza debito. Con la sostanziale differenza che dall’indebitamento originario verso la comunità, gli dei, gli antenati, oggi siamo passati all’indebitamento verso il dio unico che si chiama Capitale.
●L’uomo indebitato, nel libro
insisti molto su questo, non è solo
una figura economica, è un
soggetto morale, costruito e
disciplinato dall’etica
neoliberista. Ma per trent’anni,
l’etica neoliberista aveva
predicato intraprendenza,
individualismo, consumismo: i
tratti dell’ «imprenditore di se
stesso» ben delineati da Foucault
nella «Nascita della biopolitica».
Come si passa all’etica del debito
di oggi, che invece predica rigore,
disciplina e penitenza? Cos’è
questo rovesciamento delle
retoriche del godimento nelle
retoriche della colpa?
C’è di mezzo la frattura della crisi. Il
risvolto morale - Weber insegna -
non è mai stato secondario nella
storia del capitalismo: l’economia è
anche soggettivazione, domanda e
comanda un lavoro su di sé,
disciplina e richiede autodisciplina.
Prima della crisi, si trattava di
forgiare «l’imprenditore di se
stesso» sulla base della
responsabilità, di un responsabile
investimento su di sé. Con la crisi,
quello stesso imprenditore di se
stesso diventa responsabile del suo
fallimento: dei debiti che ha
contratto, di non aver lavorato abbastanza, di voler andare troppo
presto in pensione, di consumare
troppo eccetera. La responsabilità
viene caricata dei debiti e della
colpa insieme, secondo l’etimologia
del termine tedesco «schuld»,
debito e colpa appunto. Ma che
questa seconda ingiunzione morale
sia figlia di quella precedente lo
dimostra il fatto che entrambe
restano vigenti,
contraddittoriamente, nel discorso
dei media: da quando è esplosa la
crisi, i giornalisti diffondono il verbo
della penitenza, i pubblicitari
continuano a incitarci a consumare
e a godere. Bada che il
cambiamento di soggettività indotto
dalla crisi non riguarda solo i
governati, ma anche i governanti. In
Italia si vede benissimo: Berlusconi
era populista, i «tecnici» sono cinici.
In Grecia si governa con la ferocia.
La crisi – questo Foucault non
l’aveva previsto – ha impresso al
neoliberismo una torsione
autoritaria.
●In questa torsione autoritaria i
governi tecnici sono un caso o
hanno una funzione specifica?
Come si inserisce il governo Monti
in questa parabola?
I governi tecnici sono la privatizzazione della governamentalità neoliberale, che se prima era una tecnologia dell’apparato statale ora viene presa in mano dalle banche e dai mercati, con lo Stato in funzione di garante. Dagli anni Ottanta in poi tutti i governi sono «tecnici», nel senso che sono subordinati alla finanza. Ma adesso viene fuori il nocciolo del problema: la privatizzazione della governamentalità spazza via il binomio fra soggetto di diritto e logica della rappresentanza su cui si sono rette le democrazie novecentesche. Crisi dello Stato di diritto, oscuramento del soggetto dei diritti e crisi della politica sono tre lati dello stesso problema. Se la gente non crede più nella politica non è, o non soltanto, per via della corruzione, ma perché percepisce questo cambiamento strutturale.
●La crisi degli ultimi anni è crisi del progetto neoliberista, ma il neoliberismo reagisce riproponendo e portando alle estreme conseguenze le sue ricette originarie. Come se ne esce?
La ripresa economica non è all’orizzonte, dunque non credo che se ne esca per questa via. Temo una deriva sempre più autoritaria nelle politiche sociali e di controllo del mercato del lavoro. In Germania – alla faccia della retorica del «modello tedesco», che in Italia seduce anche la sinistra - la precarizzazione del lavoro ha già portato alla riduzione di un paio di punti della speranza di vita, e fra un po’ l’età pensionabile coinciderà con la fine della vita: la biopolitica sta diventando visibilmente tanatopolitica.
●Ci sono anche nuove lotte però,
nuove resistenze. Se, come tu dici,
l’economia del debito porta in
primo piano la contraddizione fra
proprietari e non proprietari,
questo cambia, l’asse delle lotte? I governi tecnici sono la privatizzazione della governamentalità neoliberale, che se prima era una tecnologia dell’apparato statale ora viene presa in mano dalle banche e dai mercati, con lo Stato in funzione di garante. Dagli anni Ottanta in poi tutti i governi sono «tecnici», nel senso che sono subordinati alla finanza. Ma adesso viene fuori il nocciolo del problema: la privatizzazione della governamentalità spazza via il binomio fra soggetto di diritto e logica della rappresentanza su cui si sono rette le democrazie novecentesche. Crisi dello Stato di diritto, oscuramento del soggetto dei diritti e crisi della politica sono tre lati dello stesso problema. Se la gente non crede più nella politica non è, o non soltanto, per via della corruzione, ma perché percepisce questo cambiamento strutturale.
●La crisi degli ultimi anni è crisi del progetto neoliberista, ma il neoliberismo reagisce riproponendo e portando alle estreme conseguenze le sue ricette originarie. Come se ne esce?
La ripresa economica non è all’orizzonte, dunque non credo che se ne esca per questa via. Temo una deriva sempre più autoritaria nelle politiche sociali e di controllo del mercato del lavoro. In Germania – alla faccia della retorica del «modello tedesco», che in Italia seduce anche la sinistra - la precarizzazione del lavoro ha già portato alla riduzione di un paio di punti della speranza di vita, e fra un po’ l’età pensionabile coinciderà con la fine della vita: la biopolitica sta diventando visibilmente tanatopolitica.
Si va ovunque verso un impoverimento di strati sempre più vasti della popolazione, e verso una sorta di pieno impego precario, in cui tutti lavorano, tre o quindici ore alla settimana, senza sicurezza, senza reddito, senza diritti e senza futuro. Mentre i ricchi fanno secessione: non pagano più le tasse, si dissociano dal patto sociale. La prima cosa da fare in una situazione del genere è superare la distinzione fra lotta sindacale e lotta politica: il sindacato non può più essere sindacato di categoria. Se quella del debito è una politica di unificazione sociale anti-politica – tutti debitori, al di là della collocazione nel sistema produttivo, e tutti disciplinati dalla morale dei sacrifici - il sindacato deve politicizzare questo sociale unificato al di là dei confini fordisti, connettere le figure dello sfruttamento al di là delle divisioni fra occupati e disoccupati, attivi e inattivi, produttivi e assistiti, precari e garantiti. La figura dell’uomo indebitato è trasversale, richiede nuove forme di solidarietà e cooperazione, nuove modalità di lotta che abbiano la stessa efficacia dello sciopero nella società industriale, e la reinvenzione di una «democrazia» capace di riconfigurare e reintegrare il politico, il sociale e l’economico. Ma tutto questo servirebbe a poco senza una conversione soggettiva, senza un rifiuto della morale del debito e dell’ordine del discorso in cui ci imprigiona. La mossa è in primo luogo simbolica: liberarsi da sensi di colpa, cattiva coscienza, oneri di giustificazione; rifiutarsi di pagare il debito perché il debito, prima che un problema economico, è un dispositivo di potere che ci tiene incatenati al Grande Creditore. Porgendoci queste catene come un destino ineluttabile, e tenendo sotto controllo non solo il nostro presente ma anche il nostro futuro, il nostro tempo e il tempo delle generazioni che verranno.
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