29.8.12
28.8.12
Daniel Paul Schreber - Memorie di un malato di nervi (Adelphi, Ita, 1974)
Daniel Paul Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figlio di un illustre educatore dalle idee ferocemente rigide, ebbe nel 1893, a cinquantun anni, una grave crisi nervosa ed entrò nella clinica psichiatrica di Lipsia, affidandosi all’autorità del suo direttore, l’anatomista P.E. Flechsig. La crisi aveva avuto inizio quando un giorno, nel dormiveglia, il presidente Schreber si era trovato a pensare che «dovesse essere davvero molto bello essere una donna che soggiace alla copula». A partire da questo punto si sviluppò in lui un prodigioso delirio, che lo fece passare per tutti gli estremi della tortura e della voluttà, coinvolgendo dèi, astri, demiurghi, complotti, «assassinii dell’anima», catastrofi cosmiche, rivolgimenti politici. Al centro di tutto erano la convinzione, in Schreber, di trovarsi vicino a essere trasformato in donna, e la sua lotta stremante contro un Dio doppio e persecutore. È comunque difficile dare un’idea in poche parole della sconvolgente architettura di immagini, nessi, illuminazioni tragiche e comiche che il lettore incontrerà in questo libro, scritto da Schreber dopo sei anni di malattia, con lo scrupolo di uno specchiato magistrato prussiano, con fermo rigore logico, con sprazzi di paurosa intelligenza, con la cupa determinazione di un trattatista gnostico, allineando pacatamente la sequenza di enormità che aveva vissuto e ragionandoci sopra. Con queste Memorie egli voleva, fra l’altro, dimostrare di non essere pazzo – e incredibilmente ci riuscì, sicché il suo ricorso in appello contro la sentenza di interdizione venne accolto, permettendogli di tornare a vivere per qualche tempo nella società. Della eccezionale importanza di questo testo si accorse per primo Jung, che lo citava già nel 1907 e lo fece leggere a Freud nel 1910. Anche Freud ne fu subito molto impressionato, e scrisse a Jung che Schreber «avrebbe dovuto essere fatto professore di psichiatria». La lettura di queste Memorie fece cristallizzare in Freud la teoria della paranoia, e così nacque il suo famoso saggio universalmente noto come «il caso Schreber», che sarà una delle occasioni su cui scoppierà il dissenso con Jung. Ben meno conosciute – fra l’altro perché la famiglia di Schreber sequestrò gran parte dell’edizione originale – sono le Memorie, che invece meritano di essere considerate uno dei libri-chiave della nostra epoca. E infatti nel corso degli anni, e soprattutto in questi ultimissimi tempi, un nugolo di interpretazioni si è addensato intorno a esse, sicché questo testo è diventato una sorta di prova del fuoco della teoria psicoanalitica, come ha visto Lacan nel lungo saggio che gli ha dedicato. Ma, anche al di fuori del contesto psicoanalitico, le Memorie di Schreber agiscono come una provocazione potente: basterà ricordare le memorabili pagine su Schreber in Massa e potere di Elias Canetti, che illuminano il rapporto fra paranoia e potere politico. Alla fine del volume, nella Nota sui lettori di Schreber di Roberto Calasso, il lettore troverà una analisi dei più importanti studi che su questo libro sono stati scritti negli ultimi ottant’anni. Le Memorie sono apparse per la prima volta nel 1903.
(Note scritte da Roberto Calasso)
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Postcolonial Literatures and Deleuze Colonial Pasts, Differential Futures Edited by Lorna Burns and Birgit M. Kaiser (Palgrave Macmillan, Uk, July 2012)
A timely appraisal of two major schools of contemporary criticism, postcolonialism and Deleuzian philosophy, Postcolonial Literatures and Deleuze establishes a new critical discourse for postcolonial literature and theory. It brings together prominent scholars from the field of Deleuze studies such as Réda BensmaIa, Bruce Janz and Gregg Lambert, some of whom explore the possibilities of Deleuze for postcolonial literatures for the first time in this collection, and established postcolonial critics including David Huddart and Nick Nesbitt, who examine the relationship between different postcolonial literary writers and the Deleuzian concepts of becoming, minor literature, singularity and the virtual. Responding to one of the most trenchant critiques of postcolonialism and Deleuze in recent years, Peter Hallward's Absolutely Postcolonial, the essays showcased in this collection demonstrate that despite the criticisms that have followed the poststructuralist-inspired postcolonialism of the mid-1980s to mid-1990s, it is through the philosophy of Deleuze that the revisionary force of postcolonial literature for society and the imagination, politics and aesthetics may be reconceived anew. Where postcolonial studies to date has been primarily concerned with the politics and analysis of representation, Deleuze's work focuses on difference, immanence, expression, and becoming, all of which problematise representation as a logic closely bound to 'identity'. Yet, beyond these apparent incompatibilities, this collection argues that at a fundamental level Deleuze's commitment to a philosophy of difference without binary divisions and 'othering', his imagining of a new understanding of the relationship between past, present and future, as well as the value of his notions of becoming and the virtual, offer a set of critical concepts that, when applied to postcolonial theory and literatures, inspire a rethinking of the key issues that have come to dominate the field. Employing Deleuze in the study of postcolonial literatures, this collection, on the one hand, reinvigorates a mode of analysis at a time at which it is increasingly subject to criticism and re-evaluation, and, on the other, to make more visible questions and issues that have been little explored by Deleuze scholars.
'This volume offers an impressive line-up of scholars, who tackle the complex intersection between Deleuze's philosophy and postcolonial literature head on and with a laudable thoroughness. The strength of these essays lies in the quality of the scholarship behind them; the authors all engage fully with the difficult philosophical concepts that both Deleuze and postcolonial theory presents. At the same time the pieces are logical, well written and clearly argued.' - Eva Aldea, Visiting Tutor, Goldsmiths College, University of London, UK
LORNA BURNS Lecturer in English at the University of Lincoln, UK. Previously, she was a Postdoctoral Research Fellow of the Institute for Advanced Studies in the Humanities at the University of Edinburgh and has taught at the University of Glasgow. She is author of the forthcoming Contemporary Caribbean Writing and Deleuze: Literature Between Postcolonialism and Post-continental Philosophy (Continuum, 2012).
BIRGIT KAISER teaches Comparative Literature at Utrecht University, the Netherlands. She is the author of Figures of Simplicity. Sensation and Thinking in Kleist and Melville (Albany 2011)
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18.8.12
Il capitalismo è una religione, la più implacabile mai esistita. Intervista a Giorgio Agamben di Giuseppe Savà @ La Sicilia, 15 agosto 2012
Scicli - E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà.
Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?
“Crisi” e “economia” non sono oggi usati come concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi” dura ormai da decenni e non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro. La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”? Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane.
La crisi economica che minaccia di travolgere buona parte degli Stati europei è riconducibile alla condizione di crisi di tutta la modernità?
La crisi che l’Europa sta attraversando non è soltanto un problema economico, come si vorrebbe far credere, è innanzi tutto una crisi del rapporto col passato. La conoscenza del passato è la sola via di accesso al presente. E’ cercando di comprendere il presente, che gli uomini -almeno noi uomini europei- ci troviamo costretti a interrogare il passato. Ho precisato “noi europei”, perché mi sembra che, ammesso che la parola “Europa” abbia un senso, esso, com’ è oggi evidente, non può essere né politico, né religioso e tanto meno economico, ma consiste forse in questo, che l’uomo europeo –a differenza, ad esempio, degli asiatici e degli americani, per i quali la storia e il passato hanno un significato completamente diverso- può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col passato, solo facendo i conti con la sua storia. Il passato non è, cioè, soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, di memorie e di saperi, ma anche e innanzitutto una componente antropologica essenziale dell’uomo europeo, che può accedere al presente solo guardando a ciò che di volta in volta egli è stato. Di qui il rapporto speciale che i paesi europei (l’Italia, anzi la Sicilia è, da questo punto di vista, esemplare) ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo paesaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza. Per questo distruggendo col cemento, le autostrade e l’Alta Velocità il paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un bene, ma distruggono la nostra stessa identità. La stessa dicitura “beni culturali” è ingannevole, perché suggerisce che si tratti di beni fra gli altri, che possono essere sfruttati economicamente e magari venduti, come se si potesse liquidare e mettere in vendita la propria identità.
Molti anni fa, un filosofo che era anche un alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé che due possibilità: l’accesso a un’animalità poststorica (incarnato dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire l’alternativa di una cultura che resta umana e vitale anche dopo la fine della storia, perché è capace di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto una nuova vita.
La sua opera più nota, Homo Sacer, indaga il rapporto tra potere politico e nuda vita e evidenzia le difficoltà presenti nei due termini, qual è il punto di mediazione possibile tra i due poli?
Quel che le mie ricerche hanno mostrato è che il potere sovrano si fonda fin dall’inizio sulla separazione fra nuda vita (la vita biologica, che in Grecia, aveva il suoi luogo nella casa) e vita politicamente qualificata (che aveva il suo luogo nella città). La nuda vita viene esclusa dalla politica e, nello stesso tempo, inclusa e catturata attraverso la sua esclusione. In questo senso, la nuda vita è il fondamento negativo del potere. Questa separazione raggiunge la sua forma estrema nella biopolitica moderna, in cui la cura e la decisione sulla nuda vita diventano la posta in gioco della politica. Quel che è avvenuto negli stati totalitari dl novecento, è che è il potere (sia pure nella forma della scienza) a decidere in ultima analisi che cosa è una vita umana e che cosa non lo è. Contro questo, occorre pensare una politica delle forme di vita, cioè di una vita che non sia mai separabile dalla sua forma, che non sia mai nuda vita.
Il fastidio, per usare un eufemismo, col quale l'uomo comune si pone di fronte al mondo della politica è legata alla specifica condizione italiana o è in qualche modo inevitabile?
Credo che siamo oggi di fronte a un fenomeno nuovo che va al di là del disincanto e della diffidenza reciproca fra i cittadini e il potere e che riguarda l’intero pianeta. Quel che sta avvenendo è una trasformazione radicale delle categorie con cui eravamo abituati a pensare la politica. Il nuovo ordine del potere mondiale si fonda su un modello di governamentalità che si definisce democratica, ma che non ha nulla a che fare con ciò che questo termine significava ad Atene. Che questo modello sia, dal punto di vista del potere, più economico e funzionale è provato dal fatto che è stato adottato anche da quei regimi che fino a pochi anni fa erano dittature. E’ più semplice manipolare l’opinione della gente attraverso i medi e la televisione che dover imporre ogni volta le proprie decisioni con la violenza. Le forme della politica che noi conosciamo –lo stato nazionale, la sovranità, la partecipazione democratica,i partiti politici, il diritto internazionale- sono ormai giunte alla fine della loro storia. Esse rimangono in vita come forme vuote, ma la politica ha oggi la forma di una “economia”, cioè di un governo delle cose e degli uomini. Il compito che ci attende è dunque pensare integralmente da capo ciò che abbiamo finora definito coll’espressione, del resto in sé poco chiara, “vita politica”.
Lo Stato di Eccezione che lei ha connesso al concetto di sovranità oggi pare assumere il carattere di normalità, ma i cittadini rimangono smarriti dinanzi all'incertezza nella quale vivono quotidianamente, è possibile attenuare questa sensazione?
Noi viviamo da decenni in uno stato d’ eccezione che è diventato la regola, proprio come nell’economia la crisi è la condizione normale.Lo stato di eccezione- che dovrebbe essere sempre limitato nel tempo- è oggi invece il modello normale di governo e questo proprio negli stati che si dicono democratici. Pochi sanno che le norme introdotte in materia di sicurezza dopo l’11 settembre (in Italia si era cominciato già a partire dagli anni di piombo) sono peggiori di quelle che vigevano sotto il fascismo. E i crimini contro l’umanità commessi durante il nazismo sono stati resi possibili proprio dal fatto che Hitler, appena assunto il potere, aveva proclamato uno stato di eccezione che non è mai stato revocato. Ed egli non aveva certo le possibilità di controllo (dati biometrici, telecamere, cellulari, carte di credito) proprie degli stati contemporanei. Si direbbe che oggi lo Stato consideri ogni cittadino come un terrorista virtuale. Questo non può che deteriorare e rendere impossibile quella partecipazione alla politica che dovrebbe definire la democrazia. Una città le cui piazze e le cui strade sono controllate da telecamere non è più un luogo pubblico: è una prigione.
La grande autorevolezza che tanti riconoscono a studiosi che come lei indagano la natura del potere politico può farci sperare che, per dirla banalmente, il futuro sia migliore del presente?
Ottimismo e pessimismo non sono categorie utili per pensare .Come scriveva Marx in una lettera a Ruge, “la situazione disperata dell’epoca in cui vivo, mi riempie di speranza”.
Possiamo porle una domanda sulla lectio che lei ha tenuto a Scicli? Qualcuno ha letto la conclusione che riguarda Piero Guccione come un omaggio ad una amicizia radicata nel tempo, altri vi hanno visto una sua indicazione su come uscire dallo scacco nel quale l'arte contemporanea sembra incatenata.
Certo si trattava di un omaggio a Piero Guccione e a Scicli, una piccola città in cui risiedono alcuni fra i più importanti pittori viventi. La situazione dell’arte oggi è forse il luogo esemplare per comprendere la crisi nel rapporto col passato di cui abbiamo parlato. Il solo luogo in cui il passato può vivere è il presente e se il presente non sente più il proprio passato come vivo, il museo e l’arte, che di quel passato è la figura eminente, diventano luoghi problematici. In una società che non sa più che cosa fare del suo passato, l’arte si trova stretta fra la Scilli del museo e la Cariddi della mercificazione. E spesso, come in quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea, le due cose coincidono. Duchamp è stato forse il primo a accorgersi del vicolo cieco in cui l’arte si era chiusa. Che cosa fa Duchamp quando inventa il ready-made? Egli prende un qualsiasi oggetto d’uso, per esempio un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza a presentarsi come un’opera d’arte. Naturalmente –tranne che per il breve istante che dura l’effetto dell’estraneazione e della sorpresa- in realtà nulla viene qui alla presenza: non l’opera, perché si tratta di un oggetto d’uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l’operazione artistica, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione – e nemmeno l’artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l’orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come filosofo o critico o, come amava dire Duchamp, come “uno che respira”, un semplice vivente. In ogni caso è certo che egli non intendeva produrre un’opera d’arte, ma sbloccare la via dell’arte, chiusa fra il museo e la mercificazione. Come sapete, quel che invece è avvenuto è che una congrega, purtroppo tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il ready-made in opera d’arte. E la cosiddetta arte contemporanea non fa che ripetere il gesto di Duchamp, riempiendo di non-opere e di performances dei musei, che non sono altro che organi del mercato, destinati ad accelerare la circolazione di merci, che, come il denaro, hanno ormai raggiunto lo stato della liquidità e vogliono tuttavia ancora valere come opere. Questa è la contraddizione dell’arte contemporanea: abolire l’opera e insieme pretenderne il prezzo.
Giorgio Agamben - Archeologia dell'opera d'arte (Scicli, 6 agosto 2012)
Archeologia dell'opera d'arte, la lezione di Agamben tenuta a Scicli presso Palazzo Spadaro. Presentazione del Prof. Paolo Nifosì.
Realizzazione video www.compagniadelmediterraneo.it
Un monaco, come Casel, in qualche modo un asceta, in quel caso non un artista, che corrisponde al nome di Marcel Duchamp inventa il Ready-Made. Giorgio Agamben: "Duchamp, proponendo quegli atti esistenziali che erano i Ready-Made, e non delle opere d'arte, sapeva perfettamente di non operare come un artista, sapeva anche che la strada dell'arte era sbarrata dall'ostacolo insormontabile che era l'arte stessa, ormai costituita dall'estetica come una realtà autonoma. Duchamp aveva capito che ciò che bloccava l'arte era la macchina artistica, che aveva raggiunto nelle liturgie delle avanguardie la massa critica. Cosa fa Duchamp per far esplodere o almeno disattivare quella macchina opera-artista-operazione creativa? Prende un qualsiasi oggetto d'uso, magari un orinatoio, e introducendolo in un museo lo forza a presentarsi come un'opera d'arte. Non c'è l'opera, perché l'orinatoio è un oggetto d'uso prodotto industrialmente, non c'è l'operazione artistica, perché non c'è in alcun modo poiesis, produzione, non c'è l'artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l'oggetto, non agisce come artista, lo fa piuttosto come filosofo, come critico, come uno che respira, un semplice vivente, per citare Duchamp. Quel che poi è avvenuto, è che una congrega, purtroppo ancora attiva, di abili speculatori e di gonzi, ha trasformato il Ready-Made in un'opera d'arte. Non che essi siano riusciti a rimettere realmente in moto la macchina artistica, questa gira oggi a vuoto, ma la parvenza di un movimento riesce ad alimentare, spero per non molto tempo ancora, quei templi dell'assurdo che sono i musei di arte contemporanea. Abbandoniamo la macchina artistica al suo destino. A mio giudizio, artista o poeta non è colui ha la potenza o la facoltà di creare, che un bel giorno decide, con un atto di volontà, come il dio dei teologi, di mettere in opera, non si sa bene come e perché. Come il poeta e il pittore, così anche il falegname, il calzolaio e infine ogni uomo non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere, sono piuttosto dei viventi, che nell'uso, soltanto nell'uso delle loro membra come del mondo che li circonda fanno esperienza di se e si costituiscono come forme di vita. L'arte non è che il modo in cui l'anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del musicista, del falegname, in cui, come in ogni forma di vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità. Vorrei concludere con le parole di un grande pittore di Scicli, che alla domanda "per lei, Piero Guccione, dipingere è più che vivere?" ha risposto semplicemente: "Dipingere è certamente per me l'unica forma di vita, l'unica forma che ho per difendermi dalla vita".