18.8.12

Il capitalismo è una religione, la più implacabile mai esistita. Intervista a Giorgio Agamben di Giuseppe Savà @ La Sicilia, 15 agosto 2012


Scicli - E’ uno dei più grandi filosofi viventi. Amico di Pasolini e di Heidegger, Giorgio Agamben è stato definito dal Times e da Le Monde una delle dieci teste pensanti più importanti al mondo. Per il secondo anno consecutivo ha trascorso un lungo periodo di vacanza a Scicli, concedendo una intervista a Peppe Savà. 

Il governo Monti invoca la crisi e lo stato di necessità, e sembra essere la sola via di uscita sia dalla catastrofe finanziaria che dalle forme indecenti che il potere aveva assunto in Italia; la chiamata di Monti era la sola via di uscita o potrebbe piuttosto fornire il pretesto per imporre una seria limitazione alle libertà democratiche?

“Crisi” e “economia”  non sono oggi usati come  concetti, ma come parole d’ordine, che servono a imporre e a far accettare   delle misure e delle restrizioni che la gente non ha alcun motivo di accettare. “Crisi” significa oggi soltanto “devi obbedire!”. Credo che sia evidente per tutti che la cosiddetta “crisi”  dura ormai  da decenni e  non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo  nel nostro tempo. Ed è un funzionamento che non ha nulla di razionale.
Per capire quel che sta succedendo, occorre prendere alla lettera l’idea di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità,  una religione e la più feroce, implacabile e irrazionale religione che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua. Essa celebra un culto ininterrotto la cui liturgia è il lavoro e il cui oggetto è il denaro. Dio non è morto, è diventato Denaro. La Banca –coi suoi grigi funzionari ed esperti- ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e , governando il credito (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità), manipola e gestisce la fede –la scarsa, incerta fiducia- che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Del resto, che  il capitalismo sia oggi una religione, nulla lo mostra meglio del titolo di un  grande giornale nazionale qualche giorno fa: “salvare l’Euro a qualsiasi costo”. Già “salvare” è  un concetto religioso, ma che significa quell’ “a qualsiasi costo”?  Anche a prezzo di “sacrificare” delle vite umane? Solo in una prospettiva religiosa (o, meglio, pseudoreligiosa) si possono fare delle affermazioni così palesemente assurde e inumane.

La crisi economica che minaccia di travolgere buona parte degli Stati europei è riconducibile alla condizione di crisi di tutta la modernità?

La crisi che l’Europa sta attraversando non è soltanto un problema economico, come si vorrebbe far credere, è innanzi tutto una crisi del rapporto col passato. La conoscenza del passato  è la sola via di accesso al presente. E’ cercando di comprendere il presente, che gli uomini -almeno noi uomini europei- ci troviamo costretti a interrogare il passato. Ho precisato “noi europei”, perché mi sembra che, ammesso che la parola “Europa” abbia un senso, esso, com’ è oggi evidente,  non può essere né politico, né religioso e tanto meno economico, ma consiste forse in questo, che l’uomo europeo –a differenza, ad esempio, degli asiatici e degli americani, per i quali la storia e il passato hanno un significato completamente diverso- può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto col passato, solo facendo i conti con la sua storia. Il passato non è, cioè, soltanto un patrimonio di beni e di tradizioni, di memorie e di saperi, ma anche e innanzitutto una componente antropologica essenziale dell’uomo europeo, che può accedere  al presente solo  guardando a ciò che di volta in volta egli è stato. Di qui il rapporto speciale che i paesi europei (l’Italia, anzi la Sicilia è, da questo punto di vista, esemplare) ha con le sue città, con le sue opere d’arte, col suo paesaggio: non si tratta di conservare dei beni più o meno preziosi, ma comunque esteriori e disponibili: in questione è la realtà stessa dell’Europa, la sua indisponibile sopravvivenza. Per questo distruggendo col cemento, le autostrade e  l’Alta Velocità  il  paesaggio italiano, gli speculatori non ci privano soltanto di un bene, ma distruggono la nostra stessa identità. La stessa dicitura “beni culturali” è ingannevole, perché suggerisce che si tratti di beni fra gli altri, che possono essere sfruttati economicamente e magari venduti, come se si potesse liquidare e mettere in vendita la propria identità.
Molti anni fa, un filosofo che era anche un alto funzionario dell’Europa nascente, Alexandre Kojève, sosteneva che l’homo sapiens era giunto alla fine della sua storia e non aveva ormai davanti a sé che due possibilità: l’accesso a un’animalità poststorica (incarnato dall’american way of life) o lo snobismo (incarnato dai giapponesi, che continuavano a celebrare le loro cerimonie del tè, svuotate, però, da ogni significato storico). Tra un’America integralmente rianimalizzata e un Giappone che si mantiene umano solo a patto di rinunciare a ogni contenuto storico, l’Europa potrebbe offrire l’alternativa di una cultura  che resta  umana e vitale anche dopo la fine della storia, perché è capace di confrontarsi con la sua stessa storia nella sua totalità e di attingere da questo confronto una nuova vita.

La sua opera più nota, Homo Sacer, indaga il rapporto tra potere politico e nuda vita e evidenzia le difficoltà presenti nei due termini, qual è il punto di mediazione possibile tra i due poli?

Quel che le mie ricerche hanno mostrato è che il potere sovrano si fonda fin dall’inizio sulla separazione fra nuda vita (la vita biologica, che in Grecia, aveva il suoi luogo nella casa) e vita politicamente qualificata (che aveva il suo luogo nella città). La nuda vita viene esclusa dalla politica e, nello stesso tempo, inclusa e catturata attraverso la sua esclusione. In questo senso, la nuda vita è il fondamento negativo del potere. Questa separazione raggiunge la sua forma estrema nella biopolitica moderna, in cui la cura e la decisione sulla nuda vita diventano la posta in gioco della politica. Quel che è avvenuto negli stati totalitari dl novecento, è che è  il potere (sia pure nella forma della scienza) a decidere in ultima analisi che cosa è una vita umana e che cosa non lo è. Contro questo, occorre pensare una politica delle forme di vita, cioè di una vita che non sia mai separabile dalla sua forma, che non sia mai nuda vita.

Il fastidio, per usare un eufemismo, col quale l'uomo comune si pone di fronte al mondo della politica è legata alla specifica condizione italiana o è in qualche modo inevitabile?

 Credo che siamo oggi di fronte a un fenomeno nuovo che va al di là del disincanto e della diffidenza reciproca fra i cittadini e il potere e che riguarda l’intero pianeta. Quel che sta avvenendo è una trasformazione radicale delle categorie con cui eravamo abituati a pensare la politica. Il nuovo ordine  del potere mondiale si fonda su un modello di governamentalità che si definisce democratica, ma che non ha nulla a che fare con ciò che questo termine significava ad Atene. Che questo modello sia, dal punto di vista del potere, più economico e funzionale  è provato dal fatto che è stato adottato anche da quei regimi che fino a pochi anni fa erano dittature. E’ più semplice manipolare l’opinione della gente attraverso i medi e la televisione che dover imporre ogni volta le proprie decisioni con la violenza.  Le forme della politica che noi conosciamo –lo stato nazionale, la sovranità, la partecipazione democratica,i partiti politici, il diritto internazionale- sono ormai giunte alla fine della loro storia. Esse rimangono in vita come forme vuote, ma  la politica ha oggi la forma di una “economia”, cioè di un governo delle cose e degli uomini. Il compito che ci attende è dunque pensare integralmente da capo ciò che abbiamo finora definito coll’espressione, del resto in sé poco chiara, “vita politica”.

Lo Stato di Eccezione che lei ha connesso al concetto di sovranità oggi pare assumere il carattere di normalità, ma i cittadini rimangono smarriti dinanzi all'incertezza nella quale vivono quotidianamente, è possibile attenuare questa sensazione?

Noi viviamo da decenni in uno stato d’ eccezione che è diventato la regola, proprio come nell’economia la crisi è la condizione normale.Lo stato di eccezione- che dovrebbe essere sempre limitato nel tempo- è oggi invece il modello normale di governo e questo  proprio negli stati che si dicono democratici. Pochi sanno che le norme introdotte in materia di sicurezza dopo l’11 settembre (in Italia si era cominciato già a partire dagli anni di piombo) sono peggiori di quelle che vigevano sotto il fascismo. E i crimini contro l’umanità commessi durante il nazismo sono stati resi possibili proprio dal fatto che Hitler, appena assunto il potere, aveva proclamato uno stato di eccezione che non è mai stato revocato. Ed egli non aveva certo le possibilità di controllo (dati biometrici, telecamere, cellulari, carte di credito) proprie degli stati contemporanei. Si direbbe che oggi lo Stato consideri ogni cittadino come un terrorista virtuale. Questo non può che deteriorare e rendere impossibile quella partecipazione alla politica che dovrebbe definire la democrazia. Una città le cui piazze e le cui strade sono controllate da telecamere non è più un luogo pubblico: è una prigione.


La grande autorevolezza che tanti riconoscono a studiosi che come lei indagano la natura del potere politico può farci sperare che, per dirla banalmente, il futuro sia migliore del presente?

Ottimismo e pessimismo non sono categorie utili per pensare .Come scriveva Marx in una lettera a Ruge, “la situazione disperata dell’epoca in cui vivo, mi riempie di speranza”.


Possiamo porle una domanda sulla lectio che lei ha tenuto a Scicli? Qualcuno ha letto la conclusione che riguarda Piero Guccione come un omaggio ad una amicizia radicata nel tempo, altri vi hanno visto una sua indicazione su come uscire dallo scacco nel quale l'arte contemporanea sembra incatenata.

Certo si trattava di un omaggio a Piero Guccione e a Scicli, una piccola città in cui risiedono alcuni fra i più importanti pittori viventi. La situazione dell’arte oggi è forse il luogo esemplare per comprendere la crisi nel rapporto col passato di cui abbiamo parlato. Il solo luogo in cui il passato può vivere è il presente e se il presente non sente più il proprio passato come vivo,  il museo e l’arte, che di quel passato è la figura eminente, diventano luoghi problematici. In una società che non sa più che cosa fare del suo passato, l’arte si trova stretta fra la Scilli del museo e la Cariddi della mercificazione. E spesso, come in quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea, le due cose coincidono.  Duchamp è stato forse il primo a accorgersi del vicolo cieco in cui l’arte si era chiusa. Che cosa fa Duchamp quando inventa il ready-made?  Egli prende un  qualsiasi oggetto d’uso, per esempio un orinatoio, e, introducendolo in un museo, lo forza a presentarsi come un’opera d’arte. Naturalmente –tranne che per il breve istante che dura l’effetto dell’estraneazione e della sorpresa- in realtà nulla viene qui alla presenza: non l’opera, perché si tratta di un oggetto d’uso qualsiasi prodotto industrialmente, né l’operazione artistica, perché non vi è in alcun modo poiesis, produzione – e nemmeno l’artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l’orinatoio non agisce come artista, ma, semmai, come filosofo o critico o, come amava dire Duchamp, come “uno che respira”, un semplice vivente. In ogni caso è certo che egli non intendeva produrre un’opera d’arte, ma  sbloccare la via dell’arte,  chiusa fra il museo e la mercificazione. Come sapete, quel che invece è avvenuto è che una congrega, purtroppo tuttora attiva, di abili speculatori e di gonzi ha trasformato il  ready-made in opera d’arte. E la cosiddetta arte contemporanea non fa che ripetere il gesto di Duchamp, riempiendo di non-opere e di performances dei musei, che non sono altro che organi del mercato, destinati ad accelerare la circolazione di merci, che, come il denaro, hanno ormai raggiunto lo stato della liquidità e vogliono tuttavia ancora valere come opere. Questa è la contraddizione dell’arte contemporanea: abolire l’opera e insieme pretenderne il prezzo.