24.9.12

Un frenetico apprendistato - (Recensione di Swinging City di Valentina Agostinis) by UT @ aNobii, 22 settembre 2012


"Niente appare come dovrebbe in un mondo dove nulla è certo. L'unica cosa certa è l'esistenza di una violenza segreta che rende tutto incerto." 
(Lucrezio, De rerum natura) (1)

“Sono qui per leggere le segnature di tutte le cose” (J.Joyce, Ulisse) (2)

“After watching Antonioni’s Blow-Up, Hitchcock felt he was a century behind the Italians in technique” (from Filmcomment website) (3)

“La successione empirica del tempo è sostituita dal misterioso e spesso trascurato collegarsi degli avvenimenti, che il biografo dell’anima, guardando all’indietro e dentro di sé, sente come l’unica cosa vera.” 
(Eric Auerbach, a proposito della Recherche proustiana) (4)

E’ possibile cogliere il film Blow Up di Antonioni da diverse angolature, tante quante sono le ramificazioni che l’opera permette. E’ però la prima volta che la superficie dell’opera, la swinging city, raggiunge l’onore del focus narrativo. Parrebbe strano, o forse non lo è, ma uno dei leitmotif per cui il fim ha mantenuto l’aura di culto che tuttora lo circonda è il seguente: Blow Up cattura l’età d’oro degli anni Sessanta, il momento magico per autonomasia, il 1966 di Londra. Ovvero, il film ha congelato per sempre, in 75 magici minuti, il culmine dell’onda sixties prima che arrivasse il fatidico maelstrom del 1968. Fin qui la gogna mediatica, il pavè istrionico che tanto piace, soprattutto alla critica anglosassone, quella più hype & stripe. 

La giornalista Valentina Agostinis è abilissima nel recuperare lo slancio, il mordente del contesto londinese in cui il regista di Blow Up, Michelangelo Antonioni, si trova ad operare allorquando il compito di girare il film diventa realtà. Con uno stile a metà tra il gossip e la documentata ricerca storica e giornalistica, la Agostinis ci offre un vibrante spaccato del biennio 1965-1966, lasso temporale che inizia con la visita e i primi sopralluoghi londinesi di Antonioni nel 1965 e termina con il lancio della rivista IT, nell’ottobre del 1966, a riprese del film terminate, alla Roundhouse di Londra con l’esplosivo party che svela al mondo la potenza visionaria dei Pink Floyd di Syd Barrett. Come avrete già capito si tratta di una narrazione già ampiamente documentata dalla stampa più frivola, dal mondo mainstream della rock music e da una certa industria dello spettacolo molto attenta al target giovanile di consumatori teen. Il lato migliore dell’opera Swinging City sta nell’enorme mole di dati che l’autrice riesce ad intrecciare tra notizie che riguardano le riprese del film Blow Up, grosso modo il periodo della primavera-estate del 1966, con le notizie che riguardano la Pop City londinese del 1965-1967. Grande spazio è assegnato al mondo della fotografia, della moda, delle riviste patinate e underground, delle gallerie d’arte e dei club musicali. L’affresco è convincente e vivido, la narrazione è sciolta e partecipe. 

Il lato incongruo dell’opera è determinato dalla quasi totale mancanza dell’analisi filmica antonioniana della swinging city, tanto più stupefacente se pensiamo che il film Blow Up non è un film convenzionale o compiacente verso il contesto pop dove si svolge il plot narrativo dell’opera. Ci è parsa una semplificazione forzata quella di equiparare il carattere glamour della città di Londra alle intenzioni del regista romagnolo. Come se il luccichio che Antonioni ritrae fosse il sentito dell’artista, come se la città pop avesse trovato il proprio cantore. Trasformare Antonioni in un puerile agiografo dell’atmosfera febbricitante londinese è del tutto azzardato. L’amore verso Londra, Blow Up e l’âge d’or dell’arte pop ha tradito il compito che si sarebbe potuta assegnare l'autrice in alcuni capitoli "mancanti" del libro, ovvero come il regista ha problematizzato la swinging era e il narcisismo inarrivabile della società dell’immagine nascente colto nei suoi primi vagiti. Prendiamo un solo esempio, paradigmatico: la scena clou degli Yardbirds al rock club Ricky Tic di Soho. In breve, la scena si svolge in questo modo: il protagonista, Thomas/Hemmings, vagando per Soho intravvede Jane/Redgrave. La insegue nelle backstreets ma ne perde le tracce. Pensa di ritrovarla dentro ad una sala da concerto gremita da giovani intenti a seguire la performance degli Yardbirds. Hemmings, attratto dallo spettacolo, si sofferma fino a quando il concerto degenera: il chitarrista del gruppo, Jeff Beck, distrugge il proprio strumento musicale e getta il manico della chitarra al pubblico. Si scatena una vera e proprio rissa per aggiudicarsi il reperto rotto, ed Hemmings, coinvolto, riesce ad entrarne in possesso e dopo una breve fuga che termina all’esterno del locale, getta via il manico stesso, divenuto un oggetto inutile e privo di interesse. La Agostinis dedica un intero capitolo a questo passaggio, giustamente famoso e si apre ad una disamina dei locali in voga in quel periodo, alla meticolosa ricostruzione in studio del Ricky Tic, si addentra a una profonda analisi ai gruppi musicali scelti da Antonioni, dai favoriti Who (come è noto, il gesto live estremo della chitarra spezzata è dovuto Pete Townshend) ai meno famosi Velvet Underground. L’autrice scrive a proposito della scena e del suo significato all’interno del contesto filmico: “Quello che gli serve (ad Antonioni, ndr) nel film è conservare quel gesto che Townshend ha trasformato in rituale, per restituirgli il senso di accidentalità, quasi banalità, in uno scenario in cui le cose assumono valore, e lo perdono, con la stessa casualità”. (5)

Antonioni è un regista, raffinato e sottile, al quale non sfugge la gran mole di segni che emette la mondanità urbana gaudente quale è quella rappresentata dalla scena al Ricky Tic. Mentre alla scrittrice, ai manager e ai gruppi rock intervistati sfugge il perché il regista svolga la scena in modo contratto e raggelato alla maniera dei tableaux vivants (lo stesso critico cinematografico Pete Brunette (6) è sgomento pensando - ma sbagliandosi completamente - che il lato documentaristico di Antonioni esca allo scoperto proprio in questa scena ma poi non si spiega perché i fans solitamente esagitati siano stati fatti posare, generando un fastidioso senso teatrale anziché optare per una ripresa naturale dell’evento). La nostra lettura della scena è diametralmente opposta. Riteniamo infatti che il regista abbia dato alla scena del concerto rock la stessa valenza della scena al party chilletterati dove Thomas/Hemmings incontra Ron, lo scrittore suo partner nel libro di fotografie da pubblicare, e Veruschka, la modella kantiana, grande protagonista nelle scene iniziali del film. Il concerto è un rituale, non di Townshend, ma della gioventù urbana pop. 

La scena del concerto degli Yardbirds è un rito della società dell’immagine - rito laico, ma che funge da religione giovanile nel mondo Pop - nel quale il gruppo musicale è l'officiante e tutti gli astanti sono spettatori muti. Come una missa in cantu urbana del XX secolo. La similitudine religiosa di questa messa laica si concretizza nel palco del concerto che simbolicamente è l’altare, il club è lo spazio liturgico nel quale si mostra ai fedeli l’ostia consacrata ovvero la chitarra spezzata dal musicista/sacerdote che, canonicamente, ricorda lo spezzare dell’ostia, corpo di Cristo per effetto della transustanziazione. Il lancio del manico rotto tra il pubblico indica il momento di comunione dei fedeli con il musicista - infatti Antonioni mostra gli astanti che da silenti e immobili divengono improvvisamente urlanti e aggressivi per il possesso dell’oggetto. Differenza di natura tra coscienza materialista che privilegia il possesso dell’oggetto consustanziato e lotta per averlo e coscienza religiosa che con-divide il pane e l’ostia officiata. La scena termina con Thomas che, una volta uscito dal locale Ricky Tic, getta il manico rotto della chitarra a terra, a simbolizzare che l’oggetto/segno, oggetto sopra-sensibile per dirla con Marx, all’interno del con-testo in cui nasce e si forma incorpora un significato “sacro” (oggetto/segno e merce/feticcio) ma una volta uscito dal con-testo è completamente inutilizzabile e ritorna ad essere un oggetto la cui forma-funzione è completamente sconosciuta, per cui perde il plus del suo valore reificato e viene quindi abbandonato. E’ un segno che non viene più riconosciuto come tale da Thomas che ne ha trovato il senso (e provato il valore) all’interno del rito officiato ma di cui dimentica prontamente l'equivalenza generale in una veloce de-transustanziazione dell’oggetto dovuta al nuovo scenario profano ove si viene a trovare. E’ quindi la mondanità, il contesto sociale nel quale il segno viene riconosciuto: “Nessun altro ambiente emette tanti segni, entro spazi altrettanto ridotti, a una velocità così grande”. (6)

Questo vale non solo per un oggetto solido, reale, legato al mondo dell’arte ma vale altresì per l’immagine e quindi per il mondo del cinema e della fotografia; infatti lo stesso non-valore del manico di chitarra rotto si ripete nella scena del furto delle fotografie nello studio di Thomas, quando rimane a terra una sola fotografia, quella del cadavere giacente, sfuggita ai rapinatori. Ebbene tale foto, sgranata eccessivamente dal blowing up di Thomas/Hemmings e ritraente una sagoma resa irriconoscibile dalle astratte linee grigie e dalle zone bianco-nere della stampa, al di fuori della neo-realtà ricostruita in studio dal fotografo - una meta-narrazione a tutti gli effetti - non significa nulla, riducendo a zero il suo appeal come prova documentale di un assassinio tutto da svelare. La foto sgranata ricorda in modo straordinario il quadro pollockiano dell’amico pittore, Bill. Il quale pittore, all’inizio del film, proclamava che i propri quadri non avevano un senso immediato, ma dovevano essere interpretati per attribuire loro un significato. Il mondo dei segni, ovvero il nostro mondo, deve essere da noi continuamente decifrato tramite un capiente apprendistato ma bisogna perseverare in questo studio, perché i segni che incontriamo possono essere incerti e oscuri. Ecco perché, ancora oggi, a distanza di oltre 40 anni da Blow Up, il film di Antonioni è ancora così denso di rilevanze e insegnamenti, non così nascosti come amerebbe presentarli un certo tipo cultura alla quale appartiene anche l’autrice di questo reportage giornalistico con l’ambizione di libro. Anche il frenetico apprendistato di Thomas/Hemmings ci può aiutare, ieri come oggi, a cercare il senso del segno.

1) citazione usata da Michelangelo Antonioni, pg. 151, Swinging City 
2) esergo di Frederic Jameson a “Firme del visibile. Hitchcock, Kubrick, Antonioni
3) http://www.filmlinc.com/index.php/film-comment-2012/article/film-comments-trivial-top-20-expanded-to-50-best-movies-never-made
4) sito Einaudi per Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Read more
5) Valentina Agostinis - Swinging City, pg. 167
6) Pete Brunette - The films of Michelangelo Antonioni Read more
7) Gilles Deleuze - Marcel Proust e i segni, pg. 7

Codex/video della presentazione di Swinging City con l'autrice, Valentina Agostinis: 
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